domenica 20 dicembre 2009

Incompresi. Comici allo sbaraglio: MY SWEET CAMERA


Italia 1987. Di Ranuccio Sodi.

Un giovane (Rossi) fa rubare ad un amico una macchina da presa, oggetto dei suoi desideri, verso cui svilupperà una passione quasi feticistica. Quel che vuol fare è utilizzare la cinepresa "come un fucile", fare presa sulla realtà. Per questo chiede lumi a due eminenti cinefili (Tatti Sanguineti ed Enrico Ghezzi), ma trascurerà la moglie in dolce attesa (Lucia Vasini, che era davvero incinta, impegnata di recente in tv con Glob e Colorado) e concretizzerà davvero poco. Prodotto dall'associazione milanese Film Maker, all'interno di un corso per cortometraggi vinto dal lavoro nel 1988, My Sweet Camera dura mezz'ora e trae originariamente ispirazione, nelle parole del regista Sodi, da un racconto di Pier Vittorio Tondelli, in cui una Volvo passa di mano in mano e c'è un suicidio finale, modificato al punto che qui c'è al più un suicidio "artistico", da parte del buon Rossi che nell'ambiguo finale dice di voler "colpire al cuore il sistema", ma si crede poco ai suoi straparlamenti mentre piazza la cinecamera in un posto vuoto.
Paolo Rossi era all'epoca reduce da alcuni film tra cui i vanziniani Via Montenapoleone e Montecarlo gran casinò della Filmauro. Per My Sweet Camera rompe il contratto con De Laurentiis, sentendosi evidentemente sacrificato nelle sue produzioni; nel 1988 verrà I cammelli, a fianco di Abatantuono, mentre con Filmauro farà a distanza di anni il flop Silenzio si nasce (che è materiale da Incompresi). Qui Sodi riesce a fare qualcosa che non imbriglia assolutamente la carica comica di Rossi, che è mattatore, ma è nel contempo riflessiva-autoriale: è un esempio mirabile di utilizzo di un attore comico per fare qualcosa in più. Non stupisce che Rossi abbia parlato di My Sweet Camera come dell'unico suo film di cui è soddisfatto. Le invenzioni comiche, frutto in piccola parte di improvvisazione, sono felici: è memorabile la moglie che lo sveglia di notte chiedendo di soddisfare la sua voglia "di Wim Wenders.... Nel corso del tempo", mentre Ghezzi e Sanguineti recitano loro stessi con naturalezza e consapevolezza del loro essere, per così dire, fuori dagli schemi (ma tutto il ridotto cast sembra a proprio agio): non a caso qui i due paiono vivere assieme, fungendo da supporto, stralunato ed inutile, all'aspirante cineasta (alla richiesta di pellicola vergine, Ghezzi lo rimprovera: "Ma la pellicola non è mai vergine...").
Sodi dal canto suo ha voluto esprimere la disillusione e la fine di un'epoca in cui sembrava che si potesse fare di più con il cinema, in cui le macchine da presa leggere documentavano anni di ribollimenti della società. In questo senso il finale, più teorico e detto, è un pò meno riuscito del resto: meglio Rossi che dalla sua finestra si illude di star girando eventi epocali, quali sganci di bombe aeree e l'uccisione di Kennedy. L'invisibilità del corto è un peccato, in ogni caso qui c'è un montaggio di tre minuti del film.
Alessio Vacchi

domenica 13 dicembre 2009

La youtubata. JIMMY IL FENOMENO


L'aggiornamento stavolta è scarno, ma spero di ovviare facendovi ridere e nel contempo rendendo un tributo a Jimmy il Fenomeno, straordinario prezzemolino della commedia italiana. In questa clip metacinematografica dal film Sesso in testa, il buon Jimmy (al secolo Origene Soffrano) dice di essere fuggito addirittura dal manicomio per provare finalmente le gioie del sesso con la protagonista, ma si tirerà indietro adducendo un motivo. Che è nonsense, ma inconsapevolmente per il buon Jimmy, si adatta parecchio all'attualità italiana per così dire "di costume"!
A.V.

domenica 6 dicembre 2009

Incompresi. IL MISTERO DEL PANINO ASSASSINO


Italia 1987. Di Giancarlo Soldi.

Il sottobosco del cinema italiano è un mondo affascinante, ma capita che, all'atto della visione, certi reperti suscitino una delusione profonda, non ripagata neppure sotto un'ottica trash. E' assolutamente il caso di questo filmetto, rimasto inedito nelle sale ("[...] il produttore esecutivo è scappato coi soldi e il film è stato messo sotto sequestro perché nessuno di quelli che ci ha lavorato è stato mai pagato!"*), pubblicato poi in vhs per pochi intimi dalla Playtime, ma fortunatamente passato in tv. Sia detto senza accanimento, ma verrebbe da pensare che la mancata uscita sia dovuta anche alla bruttezza del film: è straniante immaginarselo in sala. Quello cui ruota faticosamente attorno è l'assassinio di un tizio cinese all'interno di un singolare fast food, tra il palcoscenico teatrale (c'è una scalinata alla teatro Ariston), l'80s style e il futuristico. Sarà stata la coppia di gestori? Quella dei titolari? E quant'è losco quell'uomo coi baffi che si aggira? Un commissario donna inizia a indagare, così come una coppia costituita da un anziano e la nipote. Nel frattempo, dentro e fuori si fa notare un gruppone di giovani, con le loro rumorose moto.
Se il titolo potrebbe far pensare a una commedia horror, a qualcosa di bizzarro-volutamente trash (il Gelato che uccide di Larry Cohen, o i Pomodori assassini dell'anno dopo), il film fa pagar caro queste attese, perchè sì, c'è un'intenzione di umorismo, ma non è una cosa nè l'altra, non va da nessuna parte, non si capisce cos'è. E' un dilettantesco susseguirsi di scene che lasciano increduli per inutilità e insufficienza di senso. Già dall'inizio tira un'aria strana, con la prima delle scene coi ragazzi che camminano, fanno per attaccarsi ecc., ma si aspetti quella in cui due di loro si contendono una femmina, o quella in cui sfrecciano rumorosamente in tondo sulle moto. La mancanza di polso registico è la regola, il film è diretto in modo lasso, ed è scritto in modo tale che avrebbe potuto esserlo da chiunque. La mancanza di tensione narrativa genera una noia assoluta, che unita alla sensazione di imbarazzo rende la visione qualcosa di spiacevole: non è facile giungere in fondo. E sì che dovrebbe esserci del giallo: ma il commissario (Izzo) si muove un pò come in trance e solo alla fine il personaggio del vecchio (Rabal) sciorina, nel modo meno cinematografico possibile, la soluzione del tutto. C'è qualche canzone in colonna sonora, ma spesso c'è una sensazione di vuoto sonoro che ha sapore di incompiutezza, come se al film fosse mancato del lavoro di postproduzione. Non bastasse la povertà di mezzi e scenografie, a cui tenta di dare un colpetto la presenza della tecnologia: gli schermi da cui Bucci controlla il locale e comunica, il robot-aiutante domestico donna, che comunica con le sue labbra rosse dallo schermo-testa.
Eppure, il cast di questa roba accatasta un nome (o un viso) noto dietro l'altro: Flavio Bucci, Victor Cavallo, Massimo Dapporto, Monica Scattini, Maria Amelia Monti, Francisco Rabal, Simona Izzo, Alessandro Haber in un cameo, un Kim Rossi Stuart agli inizi, alle prese negli stessi anni con la saga del Ragazzo dal kimono d'oro, e la piccola Viola Simoncioni, che sarà nel cast di un altro "incompreso", Musica per vecchi animali. Curiosamente il dizionario Gremese riporta un cast probabilmente precedente alle riprese, che comprende Sergio Castellitto, Daniele Formica, Paco Rabal. Soldi ritenterà la regia cinematografica, con insuccesso, nel 1992 con Nero, protagonista, stavolta sì, Castellitto (probabilmente ne riparleremo). Chissà com'era l'esordio, l'ignoto Polsi sottili.
Alessio Vacchi

* http://rojking.altervista.org/soldi.htm

domenica 29 novembre 2009

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO FILM FESTIVAL, 13-21/11/2009. BRONSON


UK 2008. Di Nicolas Winding Refn. Con Tom Hardy. Su dvd e blu-ray E1 Films (regione 1).

Michael Peterson, soprannominato Charles Bronson, è un personaggio vero; è il criminale più pericoloso della Gran Bretagna, attualmente ancora dentro. Manifestata precocemente una propensione all'aggressività, meglio se verso agenti, inizia presto a vivere i suoi giorni in carcere, dove non si trova male. Vivrà una parentesi in ospedale psichiatrico ed una nuovamente da persona libera, ma la prigione è per lui una calamita.
Refn offre al suo personaggio, letteralmente, un palco in cui può esibirsi e gigioneggiare davanti a un pubblico. Può mettersi in mostra, spiegare la sua personalità e i suoi intenti, dicendo la sua sulle sue vicende che stiamo vedendo, e facendo dell'intrattenenimento. Ma costantemente Bronson si atteggia e "recita": anche davanti alle guardie mentre esce dal carcere. Non è esattamente cattivo nell'animo, è più uno showman della violenza, che utilizza quando gli serve: per esempio, non reagisce verso la donna che pare amarlo e lo illude. Ma per quanto a tratti simpatico nel suo essere assolutamente sopra le righe, questa possibilità che Refn concede al personaggio non lo fa comunque uscire bene. Bronson suscita pena, perchè è un individuo schiavo di sè stesso, o meglio ancora schiavo di qualcosa che nemmeno lui sa individuare esattamente (lampante la scena in cui prende ostaggio il poliziotto, e non sa che cosa chiedere per patteggiare). E' il farsi conoscere mettendosi costantemente in mostra, nel mostrare il suo talento in questo ambito, che è quel che davvero sa fare; nel giocare continuamente al rilancio per sentirsi più che vivo. Il carcere è per lui, consciamente, palcoscenico ideale. Qualcuno si illude di sapere quale sia la sua strada, ma si sbaglia: infatti il checchissimo insegnante di disegno viene "messo sotto" da Bronson che, avvertito quel pericolo, fa anche di lui un oggetto della sua "arte". E la sua arte si esplica anche sul suo corpo: proprio nella sequenza citata è tutto pittato di nero, ed anche nei segmenti sul vero palcoscenico si mostra truccato. Senza contare le continue ferite, sanzioni ma anche riconoscimento del suo sedicente talento.
Forte di scelte musicali potenti e di un protagonista fenomenale, che così pelato e baffuto è già fortemente iconico, Bronson è un film in cui Refn giunge ad uno stile ostentato ed elaborato, altra cosa rispetto al più viscerale (almeno registicamente) esordio con Pusher. Pellicola lucida, intensa, che non fa calare mai l'attenzione, sopra le righe come il suo protagonista: il picco in tal senso, come toni, è nella surreale scena in cui giunge dallo zio, circondato da puttanoni. Non mancano interazioni con dell'animazione, e una buona sequenza che riassume amenità del protagonista utilizzando creativamente giornali. Unica scelta che sa di maniera è l'utilizzo della stasi, del ralenti e della musica classica intorno all'ultimo pestaggio di Bronson.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO FILM FESTIVAL. FANTASTIC MR. FOX


Usa 2009. In sala dal 2 aprile 2010.

Dal romanzo di Roald Dahl, la storia di una (ovviamente...) astuta volpe, con moglie e figlio, che provoca con le sue scorrerie tre potenti ed agguerriti contadini-imprenditori del circondario. La loro reazione sarà implacabile nel minare la sua esistenza, ma mr. Fox, insieme a familiari ed amici, darà fondo alle sue risorse e trovate.
Con Fantastic Mr. Fox, che conquista dopo pochi istanti grazie già alla precisione del pelame delle volpi ed alle voci date da gente illustre come George Clooney, Meryl Streep, Bill Murray (come sarà in Italia? Brr), è un film con cui Wes Anderson si prende una parentesi dal suo "normale" cinema live-action, cimentandosi con un lungometraggio animato. Ma per fortuna ne esce bene: lo stile di Anderson pare adattarsi lestamente a una materia quale l'animazione, non solo per una più evidente questione di gusto coloristico, o per le eventuali carrellate laterali all'azione, ma anche per il senso dell'umorismo e il tono generale della messinscena. Non sembra quindi una marchetta, ma più un suo film solo, stavolta, animato. Da non appassionato di cartoons, chi scrive gli dice francamente grazie per aver messo insieme un film di animazione che una volta tanto sembra effettivamente per tutti, più che per bambini oppure bambocci malcresciuti. I personaggi sono simpatici animali antropomorfi, e la comicità è prevalentemente visiva e fisica, ma non ci si sente quasi mai trattati come piccoli spettatori. Valga solo il modo spiazzante in cui è trattata la morte del rattaccio.
Il film sconta solo una certa scattosità dei personaggi che evidentemente è come il pane e il personaggio più "portatore di messaggio" del figlio sfigatello che pare non saper far nulla ma vuole dimostrare a sè stesso e agli altri di essere invece in grado di aiutare, ma va detto che la cosa non è portata avanti in modo lezioso. Il discorso su che cosa siamo capaci di fare si lega al protagonista: personaggio che, come dice lui stesso, sente sempre il dovere di dimostrare di essere il più in gamba e per questo inciampa (ma potrà riscattarsi). Certo, una volta archiviata la visione il film ti lascia come ti ha trovato, ma è ottimo intrattenimento. Nota di demerito alla incredibile trovata della 20th Century Fox: imbustare, per riconsegnarglielo subito, il cellulare allo spettatore, come se fosse un metodo antipirateria, è un gesto che ha lasciato basiti.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO FILM FESTIVAL. LE DONK & SCOR-ZAY-ZEE


UK 2009.

Altra visione molto divertente del festival, questo breve film di Shane Meadows, regista su cui si è accesa l'interesse cinefila specie dopo This is England (2006). Apparentemente un lavoro di poche pretese, girato in pochi giorni e con pochi soldi, on the road. Ma in ogni caso, si tratta di un mockumentary che mena abilmente per il naso lo spettatore. La troupe del regista segue Le Donk, "roadie" e aspirante musicista, la cui fidanzata incinta ora sta con un altro, e il suo pupillo Scor-Zay-Zee, un grasso ragazzo rapper bianco sul cui talento l'altro crede, al punto da volerlo far esibire in apertura di un concerto degli Arctic Monkeys. Mentre il primo è ciarliero ed estroverso e catalizza l'attenzione, l'altro ha un temperamento decisamente più tranquillo.
Meadows confonde pesantamente le acque tra realtà e finzione, si mette in scena in quanto se stesso-regista ("Hai presente i film che faccio?", chiede a Le Donk all'inizio), ma fa impersonare i due protagonisti, presunti personaggi veri pedinati, a due attori. Per quanto Le Donk sia personaggio sopra le righe (ispirato all'attore Paddy Considine da perdigiorno reali), alla passività bonacciona, che pare connaturata alla sua stazza, del rapper è più facile abboccare. E comunque, la lunaticità di Le Donk è resa perfettamente: tanto di cappello ai protagonisti, straordinari. Il regista sembra divertirsi riflettendo anche sulle modalità di registrazione della realtà: Le Donk, all'inizio, cerca di stipulare col "suo" regista un patto sul come essere messo in scena ("Non far vedere di me solo il lato lunatico"), oppure si veda la scena a casa della ragazza incinta, con tutta la verità spiattellata e immediatamente fissata dalla camera. Il gioco si fa più scoperto, e il film assume un sapore più di fiction sedendosi un pochino, nel segmento relativo al parto della ragazza, quando Le Donk abbandona momentaneamente il campo e il film sta comunque su di lui. Ma alla fine la pagliacciata, dopo aver coinvolto gli Arctic Monkeys (storpiati in "Arctical Monkeys"), mette in mezzo anche il loro pubblico, che assiste ad una singolare esibizione. A noi pubblico del film, è concesso qualche ameno freestyle in più del corpulento rapper. Finalissimo sui titoli di coda con goliardate a ruota libera di Le Donk.
A.V.

domenica 22 novembre 2009

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO FILM FESTIVAL. VALHALLA RISING


Danimarca/Regno Unito 2009.

L'ultimo film di Nicolas Winding Refn, a cui il festival ha dedicato una personale chiamata Rapporto confidenziale, è un lavoro maestoso e stupefacente, che dimostra un'ulteriore, persino inquietante evoluzione dopo il già bello Bronson. Il film si apre con un cartello a caratteri cubitali, "Nicolas Winding Refn presenta", come se il regista fosse già assolutamente consapevole della sua statura: può parere un pelo sborone, ma insomma se lo può permettere. Un guerriero (Mads Mikkelsen, che si ritrova in altri film di Refn in tutt'altri panni, es. il Lenny di Bleeder) è tenuto prigioniero e costretto a combattere bestialmente. Libero, si unisce ad altri combattenti cristiani in un duro viaggio per raggiungere la Terra Santa. Il gruppo sbarca in una terra verdeggiante, in cui però inizierà a trovare la morte, a causa di misteriose presenze e dello stremo delle forze. Il guerriero One-eye (è guercio da un occhio), tuttavia, continua il suo cammino fino all'ultimo.
Nella prima parte Valhalla Rising potrebbe quasi somigliare ad un film d'epica canonico, ma poi sembra quasi provocatorio nel negare l'aspettativa. Il viaggio in barca sembra già non avere meta, è un'immersione in una fitta nebbia colorata. Una volta toccata terra, i personaggi non possono fare altro che vagare tra le frasche, del tutto smarriti: sono uomini che non sanno che cosa fare. Il farsi scudo dei simboli religiosi e della loro presunta forza, non serve a niente, e sicuramente non evita il loro destino, quello di soccombere. In questo senso, l'enigmatico, bestiale One-eye è forse il più saggio. La sequenza in cui arrancano stremati, mezzi matti, in mezzo al fango, è da pelle d'oca. Si sta a metà, quindi, tra corporeità -la pesantezza di questi corpi stanchi- e stasi -l'impenetrabilità dell'ambiente, il girare a vuoto nonostante l'apparente obiettivo-. Il dialogo è minimale, anche perche One-eye (nome affibbiatogli, ma i nomi qui non contano nulla) non parla, si esprime per bocca del ragazzino che lo accompagna.
Poema visivo diviso in capitoli, con un commento musicale ruvido, pulsante, ed una violenza trucissima ma poco grafica, è una pellicola faticosa, nonostante la durata di circa 90', ma di prima grandezza, con colori mai visti e inquadrature mozzafiato (i volti in primo piano, ai lati del panoramico). I riferimenti possibili sono il cinema di Herzog, per il mettere in scena uomini ambiziosi alle prese con una natura ostile, ma anche la buonanima di Kubrick ed il suo 2001 odissea nello spazio, per la visionarietà e l'ermeticità, in particolar modo degli ultimi minuti. Viene in mente anche The New World di Malick, per il facile pronostico che il grande pubblico rifiuterebbe un film simile: perchè la noia arriva facile, e non succede granchè, anzi, nè arrivano epiche battaglie. Il che, di fronte a Cinema di questo livello, è trascurabile.
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 27 TORINO FILM FESTIVAL, 13-21/11/2009. BLEEDER


Danimarca 1999. Su dvd Metrodome (Inghilterra).

Bleeder è un film che fino ad un certo punto sembra più sereno degli altri di Refn. Addirittura in partenza sembra rifarsi a Clerks, in modalità più nerdamente cinefila. E' incredibile come nel cinema del regista non ci sia nulla, neppure un istante che paia buttato lì, che sembri interlocutorio e non intenso. Anche in un film non proprio di genere, ma spiazzante ed estremamente dolceamaro come questo. Il formato è sempre panoramico, con la macchina a mano che si muove non pacifica nello spazio (quando Leo è da solo, nervoso per aver trovato la moglie in confidenza con una già mamma, sembra di vedere Pusher, l'esordio di Refn), con un utilizzo consapevole dello spazio, dei primi piani. La presentazione dei personaggi iniziale, che si fa notare come in Pusher, avviene mentre questi camminano. Dopodichè si dipanano caratteri e storie. Leo scopre che la sua donna Louise aspetta un bambino e questo non gli piace, perchè capisce che la sua vita cambierà; Lenny, cinefilo nerd che gestisce una videoteca, cerca di corteggiare con molta incertezza la cameriera Lea. In mezzo, il fratello di Louise, che giocherà un ruolo importante, sanzionatore, nel momento in cui Leo prenderà a maltrattare la donna, e meno importante Kitjo, altro lavoratore della videoteca (che poi è Zlato Buric, il boss slavo di Pusher).
C'è un discorso beffardo sulla violenza al cinema: influisce sulla realtà? O sono piuttosto due piani separati, quello della violenza su schermo, quella "da intrattenimento", e quella concreta? Perchè qui lo sclero di Leo sembra non c'entrare con le visioni "underground", estreme, tra amici, o meglio pare prendere le mosse dalla coscienza di questa distanza. La violenza cova, è nell'aria, così come il razzismo (superfluo notare che la scena al drugstore, in cui Louis parla minaccioso agli stranieri che "vogliono comandare", è traslabile anche nel nostro paese). Una volta messa in gioco la pistola di Leo, si intuisce che questa sparerà: ma come ed a chi? A qualche immigrato? Oppure sarà stupida strage? Non è scontato. Anche se la risoluzione è un pò forzata, come a voler spingere sull'estremo.
Alla fine, però, Refn concede una luce (letteralmente) di speranza, chiundendo il film proprio sulla figura del videotecaro e del suo possibile legame. Bellissime scene di solitudine, con personaggi isolati: la ragazza che si aggira e legge nella disordinatissima biblioteca, Lenny nel suo appartamento, tra ambaradan di cinema e un pasto alla buona. Memorabile anche la scena del tampinamento-corteggiamento a suon di domande di Lenny verso Lea. La padronanza del mezzo di Refn è da levarsi il cappello, tantopiù se prima dell'esordio con Pusher, come lui afferma, era un "ignorante" del cinema.
A.V.

domenica 8 novembre 2009

Focus on. Chuck Norris: IL TEMPIO DI FUOCO


Usa 1986. Di Jack Lee Thompson. Su dvd Storm (in 4:3), Mgm (regione 1).

Il tempio di fuoco
, in originale, meno banalmente, Firewalker, è un film mediocre (ma dai?). Ma è anche un film che segna un distacco dai soliti Chuck Norris-movie. Perchè qui, come si evince già dai primi minuti di strambo inseguimento in pieno deserto, il registro è morbido, non serioso, ma ironico e meno per adulti. Si tratta di una modesta pellicola d'avventura, prodotta dalla solita Cannon, che sembra muoversi sulle tracce di Indiana Jones al fine di fornire un prodotto buono per un pubblico di ragazzi dalla bocca buona, per una visione da domenica pomeriggio, come si suol dire. Si tratta anche di un buddy movie: Chuck-Max fa coppia col nero Louis Gossett jr-Leo. I due sono dei veterani giramondo avventurieri che, adescati in un bar da una graziosa ragazza (e la coppia si trasforma così, presto, in trio) in possesso di una mappa, si mettono sulle tracce di un tesoro "Aztec/Mayan/Egyptian/Apache", come riporta Imdb. Sulle loro tracce, un losco indiano. Tra le altre vicende, i tre finiranno in un villaggio capeggiato da un vecchio amico di Max-Chuck Norris, reinventatosi generale capo del luogo, una sorta di paciarotto Kurtz, con le dovute proporzioni. Inoltre c'è un momento di crisi quando, in concomitanza con la nascita di un affetto tra il personaggio di Norris e quello della fanciulla (Chuck attira sempre qualche donzella), il nero pare scomparire. Ma la missione, a bordo di un decorato Maggiolino, deve proseguire!
I due amici si scambiano battute e spiritosaggini, ma si tratta perlopiù di un'ironia loffia, da telefilm, quando non proprio stupida. Anche il cattivone, per quanto si sforzi di incutere timore, è fumettistico e la convenzionalità qua e là stucca (ad esempio, ridicola la pioggia che attacca a scrosciare all'arrivo al tempio). Senza contare che la vicenda non è esattamente qualcosa che rapisca. Però, è semplice ma efficace l'idea di far travestire Chuck (e con lui i compari) in neri abiti clericali, dentro i quali si troverà anche ad impartire un'estrema unzione. Carina anche la scena in cui Max nuota con molta titubanza. L'attore qui ci mette un pò per esplicare le sue abilità marziali, fino a sfogarsi in una scena di rissona in un bar, con gente che vola ovunque; liquiderà, infine, il nemico con un notevole calcione al ralenti. La violenza si mantiene sotto i livelli di guardia, ma non è un pregio. Norris, di suo, non se la cava male a recitare in un registro e un contesto un pò diversi dal suo solito, ma Il tempio di fuoco resta un film solo per fans.
Alessio Vacchi

The freak show. THE HILLS RUN RED


Usa 2009. Su dvd Warner (regione 1).

Ossessionato dall'introvabile The Hills Run Red, un oscuro slahser-movie da tutti ritenuto introvabile, il giovane Tyler mette assieme una piccola troupe, composta dal suo migliore amico come cameraman e dalla sua ragazza in qualità di fonico, per realizzare un documentario sul mistero legato al film. Il suo vero asso nella manica è rappresentato da Alexa, la figlia del regista da lui rintracciata, con la quale i tre partono alla ricerca delle locations originali, non sapendo di essere anche loro destinati a diventare riluttanti interpreti del film maledetto.
Nove anni dopo l'esordio di The Dead Hate The Living, Dave Parker torna alla regia firmando un film tecnicamente ineccepibile e dimostrando di aver colmato le lacune (se di lacune effettivamente si trattava) che affliggevano la sua opera prima. Purtroppo non si può dire lo stesso della storia, che cerca in ogni modo di sorprendere anche gli spettatori più scafati cambiando le carte in tavola ogni dieci minuti o suppergiù. Il film stesso muta registro in più di un'occasione, passando dal thriller allo slasher fino a diventare un "torture porn" tipo Hostel, spruzzando qua e là pure qualche momento alla The Blair Witch Project, come se volesse accontentare chiunque a tutti i costi. Non che chi scrive non apprezzi i tentativi di originalità, ma in questo caso uno svolgimento un po' più classico avrebbe dato risultati migliori, specie considerando che molti dei colpi di scena minano pesantemente la plausibilità dell'intreccio. Sicuramente impressionante in quanto realizzazione è invece il mostruoso Babyface, il maniaco che imperversa sia nel film-nel-film che nei boschi in cui si avventurano i protagonisti. Anche la protagonista femminile Janet Montgomery è un bel capolavoro, ma in questo caso è tutto merito di mamma & papà. Non un brutto film, ma nulla di memorabile.
Emiliano Ranzani

domenica 1 novembre 2009

A domanda rispondo. ENZO G. CASTELLARI


In La via della droga dai dimostrazione del tuo grande talento per le scene d’azione. E’ stato complesso girare le scene più spettacolari, come l’inseguimento finale in aereo?
L'idea dell'inseguimento aereo è nata un giorno che Fabio Testi, provetto pilota, mi ha invitato in volo sui cieli di Roma: ho subito espresso la voglia di inventare un inseguimento diverso per il finale del film. Abbiamo scritturato Gianni Orlando, amico di Fabio, proprietario di night club ed ex pilota della Pattuglia Acrobatica come "cattivo"... e per la prima volta, credo, nel Cinema si vedono i due veri protagonisti in volo, pilotando i loro rispettivi aerei ed inseguirsi con ardite manovre. Sono ancora molto orgoglioso di questa sequenza.

Che ricordi hai del produttore, Galliano Juso?
Ci siamo conosciuti all'Università di Architettura. Quanto seppe che mio padre era un noto regista mi chiese di seguirmi ogni volta che andavo sul set di padre. Ha immediatamente dimostrato un grande amore ed ammirazione per il Cinema... ci siamo rivisti dopo anni, quando mi chiamò per dirigere Il grande racket. Mi ha messo in condizioni ideali per girare il film che volevo. E' un produttore che ama i film che fa e si prodiga perché venga bene, senza lesinare.

Nel film ci sono degli elementi che ti collegano a Profondo rosso: David Hemmings e le musiche dei Goblin…
Quando chiesi a Juso di volere David Hemmings per il ruolo non mi rispose nulla, chiamò subito l'agente di David e fissò un appuntamento per me con l'attore. Poi chiamò l'agenzia di viaggi e mi fece il biglietto per Londra... incontrai così un attore eccezionale. David Hammings terminava in quei giorni un suo film prodotto, scritto, interpretato e diretto da lui. Ho avuto subito la sensazione di parlare con una persona che il Cinema lo conosceva bene. La lavorazione con lui é stata, a dir poco, straordinaria. Una serietà ed una competenza unica. Ottenuto lui da Juso, avere anche la collaborazione dei Goblin è stata una conseguenza logica.

Quel maledetto treno blindato negli ultimi anni è stato rivalutato, grazie a Quentin Tarantino, che ne sta preparando un remake*
E' la verità. Al Festival di Venezia incontro Quentin ed insieme a Joe Dante vediamo la proiezione del mio film. Per Tarantino era la prima volta che lo vedeva sul grande schermo (lo aveva visto solo su cassetta) e si emozionò tantissimo. Alla fine del film salta in piedi ed applaude verso di me gridando all'enorme pubblico di giovani che aveva affollato la proiezione : "My master... this is my master... Enzo is my master..."... un'emozione unica, irripetibile! Il giorno dopo, nel ristorante dell'Excelsior pranziamo insieme e mi spiega come sta modificando la mia sceneggiatura in quella del suo prossimo film. Con i milioni di films girati nel mondo, un genio come Tarantino sceglie un solo film per farne un remake...e sceglie il mio!

Cosa mi dici dei due attori americani protagonisti, Fred Williamson e Bo Svenson?
Fred è un animale da Cinema. Non ci sono segreti per lui e riesce a realizzare ogni cosa che gli ho chiesto con una sua interpretazione magistrale. Anche lui è produttore, sceneggiatore e regista, un vero uomo di Cinema. Questo non lo potrei dire di Bo Svenson.

Dov ‘è stato girato Il cacciatore di squali? Che ricordi hai di questo film?
Nelle isole dei Caraibi, nel golfo del Messico : Cozumel e Isla Mujeres. Una delle più belle vacanze professionali della mia carriera. Franco porta anche suo figlio Carlo ed io tutta la mia famiglia. Un periodo stupendo... Viva il cinema!

Il giorno del cobra è un film d’azione crepuscolare, in cui l’eroe, il detective Larry Stanziani, interpretato da Franco Nero, si trova solo, tradito da tutti…
L'ho rivisto recentemente, dopo di averlo fatto tanti anni fa. M'è piaciuto molto. Franco recita un gran bel personaggio. Un Philip Marlowe alla nostra maniera ma molto ben realizzato. Mi ero dimenticato delle tante scene d'azione che avevo inventato e mi hanno emozionato. Ben fatte e giuste per la storia. Devo dire che sono "very proud" di aver realizzato questo film.

Le scene d’azione sono girate molto bene e anche il montaggio di Gianfranco Amicucci è molto efficace.

Pochi giorni di San Francisco e poi tutto il film girato a Genova, dove lo montavo anche, come mia abitudine. Non posso fare a meno di montare ogni mio film tutte le sere. E' forse il riposo migliore passare dal set al montaggio, un relax professionale che adoro. Con Gianfranco, nella moviola messa in albergo, scelgo le varie scene girate e gli dico come le voglio montate poi la sera dopo controllo il montaggio con le eventuali modifiche e scelgo il materiale nuovo... e così tutte le sere.

L’ultimo squalo nasce sull’onda del successo ottenuto dal film di Spielberg...
Certamente! Quando uscì negli USA, nella sola zona di Los Angeles, nel primo weekend incassò $ 2.200.000. Un incasso incredibile per un film straniero. Normalmente, in tutto il mondo, dopo un grosso successo di un film ne nascono centinaia di imitazione. Vedi Rambo. Ma tutti questi altri prodotti non hanno mai impensierito le majors americane... ad eccezione del mio! Il grandissimo successo preoccupò talmente tanto la Universal che tentò in ogni maniera di bloccare le visioni del mio ... che era già uscito in tutto il resto del mondo con il titolo Jaws 3 e maturando degli incassi record, e la casa di produzione stava preparando il suo Jaws 3... alla fine di un mese di programmazione riescono a bloccare la visione del mio film accusandolo di plagio. Malgrado la sventura ci sarà poi una cosa che mi riempirà di soddisfazione, anche se non paga il male che mi hanno fatto : nel Jaws 3 della Universal ci sono tre sequenze che hanno copiato interamente dal mio!

Che ricordi hai della trilogia futuristica, composta da I nuovi barbari, 1990 I guerrieri del Bronx e Fuga dal Bronx? Il Bronx è stato ricreato a Roma?
Ricordi stupendi. L'idea è nata con Fabrizio de Angelis. Come produttore si è dimostrato fantastico. Mi ha dato tutte le chances per realizzare alla grande i tre films. Una collaborazione straordinaria. Nel vero Bronx ho vissuto emozioni incredibili con gli abitanti del posto, con i quali ho avuto un rapporto amichevole che ha permesso di superare le tante difficoltà. A Roma ho girato in una vecchia cartiera abbandonata di Tivoli dove ho trovato degli ambienti che si sono collegati con quelli del Bronx tanto da sfidare chiunque per capire quali fossero le scene del vero Bronx e la cartiera. Anche di questo lavoro sono "very proud"! Negli USA ottiene un successo mitico. Rimane nella classifica dei 50 top film della rivista Variety al quinto posto per settimane.

Che ricordi hai di Henry Silva, un’altra icona del cinema di genere?
Con lui parlavo spagnolo, ha origini portoricane credo. E' un uomo molto simpatico, sempre pronto a parlare di donne e raccontare barzellette spinte. La sorpresa é stata quella di vedere il "parrucchino" personale che si é portato da casa. Qualcosa di leggerissimo che, appena applicato dalla parrucchiera, non c'era possibilità di capire che portasse una parrucca. Geniale ! Come attore era un po' overacting, leggermente sopra le righe, ma sempre pronto alla collaborazione e molto disponibile. Ho un ricordo molto bello di lui.
In Tuareg, il guerriero del deserto, il protagonista è un giovane Mark Harmon, adesso diventato celebre grazie alla serie tv NCYS
L'ho scelto a Los Angeles, nel lungo casting preparato dalle varie agenzie di attori. Era protagonista di una serie televisiva americana intitolata Flamingo Road. Nel primo incontro nasce una immediata simpatia fra di noi... incontro altri attori, ma alla fine decido per lui e ci incontriamo di nuovo. Lui ha letto il copione ed é felicissimo di fare il ruolo. Il film l'ho girato tutto in Israele e l'interpretazione di Mark è stata favolosa. E' un film che amo molto.

Tra i vari attori americani che hanno collaborato con te, c’è anche Erik Estrada, in Colpi di luce. All’epoca era molto famoso grazie ai Chips
Altri avvertimenti: "Stai attento, è un violento... è un portoricano del Bronx..." Ci incontriamo in un noto ristorante di Los Angeles ed anche con lui è amore a prima vista. Un fisico notevole, un sorriso a settantotto denti, una simpatia schietta e diretta. Ci somigliamo abbastanza. Il film gli piace ed é pronto. Lo giro interamente a San Francisco, una delle più belle città del mondo !!! Ricordo la lavorazione con grande affetto e piacere. Erik si dimostra un buon attore e, malgrado la sua popolarità straripante nella città, é modesto e rispettoso delle ammiratrici alle quali dedicava foto e si lasciava ritrarre insieme a loro senza problemi. Una gran brava persona ed un amico per il resto della nostra vita.
Striker è un film minore nella tua filmografia, ma ha un cast di buon livello, composto da John Steiner, Frank Zagarino e John Phillip Law. Che ricordi hai di questo set?
Il film lo doveva dirigere Umberto Lenzi ma il produttore chiese a Gianfranco Amicucci, il mio montatore, di incontrarmi. Mi parlò delle grandi difficoltà, dei pochi soldi, ma tutto questo poteva risolverlo se a girarlo fosse Castellari. Perché dovrei farlo? Aveva già il regista! Mi disse che anche un uomo famoso alle volte può derogare sulle sue richieste ed affrontare un'avventura ... l'idea di realizzare un film senza mezzi e senza soldi, nella realtà, mi incuriosì molto, naturalmente senza firmarlo. Poi si gira tutto a Santo Domingo... ecco l'occasione di fare una bella vacanza e poter mettere alla prova la mia inventiva e le mie capacità. Accetto. In verità le difficoltà furono infinite ma ad ogni problema io rispondevo con un'invenzione che risolveva gli intoppi. Realmente un'avventura! Ma alla fine é uscito un film d'azione dignitoso e venduto in tutto il mondo. Il protagonista lo scelgo a Miami , un ragazzone biondo, tutti muscoli, tipo Big Jim. Frank Zagarino. Come guest-star John Philip Law, un buon attore dalla fisicità esagerata, sarà alto due metri, molto disponibile e corretto. Una buona collaborazione, nella velocità delle riprese. John Steiner è un vero attore, simpatico e collaborativo. Vedere come risolvevo tutti i problemi lo affascinava enormemente e mi stava sempre accanto "per imparare" diceva lui.
Un film curioso è Sinbad, un epico fantasy, realizzato nel 1989, con Lou Ferrigno!
Se la Cannon, la produzione dei due israeliani Golan e non mi ricordo l'altro (Yoram Globus, ndr), non avesse fallito prima che finissi il film (ho girato anche per 3 puntate televisive) sarebbe venuto molto bene. Non ho potuto girare tutti gli effetti speciali, quelli favolistici, quelli assolutamente necessari per realizzare la "favola di Sinbad". Non avevo terminate le riprese che la produzione ci manda tutti a casa. Devo ancora avere i soldi! Dopo anni, negli USA, vedo una cassetta del film "Prodotto e diretto da E.G.C.", lo compro e cerco di vederlo... dico "cerco" perché sono state assemblate una serie di scene e, in mancanza degli effetti speciali, legate da una mamma che racconta alla figlia... ?! Una cosa disgustosa. Vengo a sapere in seguito che quelle scene sono state girate da Luigi Cozzi. Non sono riuscito a vedere la cassetta. Oggi é uscito anche in DVD... ontinuerò a non vederlo !

Qual è il tuo rapporto con la fiction televisiva? In Extralarge hai diretto una coppia atipica, formata da Bud Spencer e Philip Michael Thomas. C’era un buon rapporto tra i due fuori dal set? Michael Thomas all’epoca era reduce da Miami Vice
Il primo lavoro televisivo è stato XL ed io ho girato 6 "films" ... significa che non ho tenuto in conto le raccomandazioni e gli obblighi dei dirigenti TV che decantavano il modo di girare per la TV. Io ho riscritto le sceneggiature, alcune buttate e reinventate, ed ho girato cinematograficamente! Ho realizzato i 6 films come per il grande schermo. Il successo che ne é seguito ed il Telegatto mi hanno dato ragione. Philip Michael è una delizia di uomo, simpatico, intelligente ed anche un ottimo attore. Il suo rapporto con Spencer é stato corretto e rispettoso. Con me é stato fantastico. Thomas a Miami, dove ho girato i 6 films, é stranoto ed ammirato. Amo il rapporto di quelle star che rispettano gli ammiratori e dedicano loro le attenzioni ed il rispetto che meritano. Quasi più di Erik Estrada.

Per la tv hai anche girato Il ritorno di Sandokan. Il cast comprende molte glorie del cinema italiano, da Kabir Bedi a Fabio Testi a Franco Nero e Romina Power. Il film è stato scritto da George Eastman vero?
Le puntate televisive sono state scritte da Montefiori-Eastman sotto la direzione di Goffredo Lombardo. Questo produttore, che ha dato tantissimo al Cinema, ormai piuttosto anziano, dedicava tutto il suo tempo al lavoro, prevaricando gli autori con le sue idee. Nel contratto che mi ha fatto firmare lui aveva il final-cut... ma per me, a quel punto della mia carriera, un lavoro televisivo non avrebbe regalato nulla ed ho lasciato che Lombardo gestisse le immagini: infatti, la mattina presto lui cambiava il mio montaggio fatto la sera, con la collaborazione servile del montatore. Con gli attori ho avuto un ottimo rapporto... ad eccezione del "giovane" scelto, obbligato e protetto dal figlio di Lombardo (un disastro)! Kabir é un gran signore, nobile di animo e di modi, una grande e rispettosa educazione ed un ottimo attore, dalla fisicità al tempo stesso prepotente ed elegante! Una gran bella persona!

George Eastman ha anche scritto Deserto di fuoco, in cui compare un cast di altissimo livello, con Vittorio Gassman e Claudia Cardinale. Che ricordi ha di questi due attori?
Sono molto contento di questo cast straordinario, se fosse stato riunito in un film negli anni 80 sarebbe stato un sogno per qualsiasi regista. Virna Lisi lavora per la prima volta con Claudia Cardinale ... Franco Nero-Giuliano Gemma-Fabio Testi insieme, un trio che avrebbe sbancato i botteghini nei tempi d'oro. Vittorio Gassman, altro mostro sacro, si aggiunge al cast già straricco. Orso Maria Guerrini passa nel mio ufficio e vedendo sul cartellone degli attori tutti questi nomi mi chiede un piccolo ruolo per entrare in questa lista... i francesi Jean Sorel, Marie Laforet, Anthony Delon ed altri molto importanti che, uniti ai grossi nomi tedeschi, determinano un reparto artistico invidiato da tutti i miei colleghi. Questo sceneggiato mi regala la possibilità di dirigere tutti questi miti. La Lisi è la professionalità fatta donna, con una classe ed un fascino unico... Claudia Cardinale, l'attrice che ho sempre seguito in tutti i suoi films con l'enorme ammirazione per la sua bellezza... Gassman, il mito dei miti, sul set ha avuto la stessa disciplina e rispetto per la mia persona, in precedenza solo De Sica mi aveva regalato questa emozione. Delon credo che abbia preso da suo padre solo i difetti... Marie Laforet una meraviglia, ancora bellissima ed affascinante... Sorel un gran signore, una nobiltà di altri tempi. I tedeschi tutti straordinari professionisti... un altro francese che prese un premio a Cannes, un tale Stephan Freys, o qualcosa di simile, uno stronzo macroscopico...

Hai fatto ritorno al cinema nel 1994, con Jonathan degli orsi. Lo reputi un film riuscito? Come giudichi questo tardo western con il suo attore simbolo, Franco Nero?
Parzialmente riuscito. L'ho girato interamente in Russia, in un paesino vicino Mosca. Credo che tutte le difficoltà che io abbia subito negli altri lavori, unite tutte insieme non raggiungano quelle che ho dovuto sormontare in questo film. Il risultato ottenuto ha del miracoloso...

Cosa puoi dirmi di Tito Carpi, uno dei tuoi sceneggiatori abituali?
Potrei parlare per ore dell'amico più grande che abbia mai avuto. Un uomo dalla cultura gigantesca, dall'umanità senza confronti, dalla bravura unica, dalla facilità nella scrittura che ha sempre superato tutti quelli con i quali ho collaborato. Il suo più grande difetto era la modestia, era riservato, umile, con una discrezione esemplare... un gran signore, un uomo di altri tempi! Quanti produttori si sono approfittati della sua disponibilità, senza pagarlo, promettendo che "appena possibile" sarebbe stato saldato... buffoni maledetti! Ti ringrazio che con questa domanda mi hai permesso di dire il minimo, solo il minimo su questo grandissimo uomo. Ciao Tito, ti vorrò sempre bene ...

E a proposito dei Fratelli De Angelis?
Bravi.

Hai progetti futuri? Si parla di un tuo ritorno al western con franco Nero…
Tu sai che noi "del cinema" siamo molto superstiziosi... ti parlerò dei miei prossimi lavori subito dopo averli realizzati. Per ora insegno regia nell'Università di Alicante, in Spagna e in quella di Cinecittà, la NUCT.

Intervista di Edoardo Favaron, autunno 2008. Seconda parte. Foto da: http://www.simonabrancati.com.

Memorabilia. 1.6.1963

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Dal Corriere della Sera di quella data, un montaggio della pagina spettacoli di Milano.
A.V.

domenica 25 ottobre 2009

A domanda rispondo. ENZO G. CASTELLARI


Si inaugura questa settimana una nuova rubrica, che spero ci/vi darà soddisfazioni. In A domanda rispondo cercheremo di intervistare personaggi del mondo dello spettacolo, prima di tutto italiano. Cominciamo con un nome grosso del nostro cinema popolare, personaggio negli ultimi anni già variamente interpellato, ma avendo questa intervista a disposizione, perchè non pubblicarla? Speriamo ci porti fortuna.
A.V.

Innanzitutto grazie per avermi concesso quest’intervista…Partiamo dall’inizio. Hai iniziato come aiuto regista in numerosi films diretti da tuo padre, Marino Girolami…
Ho iniziato bambino come attore, poi durante le vacanze scolastiche ho sempre frequentato i vari set di mio padre come comparsa, segretario dei segretari, cascatore, assistente...poi in seguito secondo aiuto, scenografo, primo aiuto, direttore di doppiaggio, maestro d'armi e montatore...non ultimo regista delle varie seconde unità.

Sei stato aiuto regista anche in diversi western. Cosa ti ricordi di film come Centomila dollari per Ringo, Django spara per primo, diretti entrambi da Alberto de Martino?
Mi sono divertito moltissimo ed ho continuato ad apprendere, De Martino é un ottimo regista, tecnicamente sapiente ed anche lui viene dal montaggio.

Pochi dollari per Django risulta essere stato diretto ufficialmente da Leon Klimovsky, ma lei ha partecipato molto attivamente alle riprese di questo film, tanto da risultare regista non accreditato…
Si, é vero : il film era cooprodotto da mio padre con la Spagna ed io ero l'aiuto regista...dopo il primo giorno di riprese a Madrid, riferisco la sera a mio padre, rimasto a Roma, che il "nostro" regista non era all'altezza... papà arriva subito e stabilisce che il signor Klimovsky firmerà il film ma lo dirigerò io !... e così dirigo il mio primo lungometraggio.

Sette Winchester per un massacro è stato il suo esordio ufficiale alla regia. Infatti è ancora firmato Edward G. Rowland…
Il distributore di Pochi dollari per Django viene a sapere che sono stato io a dirigerlo e chiede a mio padre di produrre il prossimo western con la mia regia. Lo scrivo con Tito Carpi, straordinario sceneggiatore e l'uomo migliore che abbia conosciuto nella mia vita. La lavorazione è regolare ed il successo di pubblico abbastanza soddisfacente.

E’ vero che il protagonista doveva inizialmente essere Robert Redford?
Si. Avevo conosciuto Redford a Los Angeles alla proiezione di The chase (La caccia). Abbiamo simpatizzato soprattutto perché lui ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Firenze ed io, diplomato a quella di Roma, abbiamo avuto anche dei professori in comune, come Guttuso e Gentilini e non abbiamo parlato di altro. Gli ho detto della mia carriera, della mia famiglia e del mio prossimo esordio alla regia..."Se il ruolo é bello mandami il copione..." Così feci. Gli piacque e sarebbe venuto ad un prezzo accessibile...ma passò per Roma Edd Byrness, molto noto per una serie televisiva, 77 Sunset Street, la prima serie americana arrivata in Italia...il distributore preferì lui, allora molto più noto di Redford!

Vado l’ammazzo e torno è il primo film firmato firmato Enzo G. Castellari. E’ un western parodistico, con molte citazioni dai film di Leone e da icone del genere come Django.
Mi sono divertito assai nel girare questo film, soprattutto per aver ottenuto la partecipazione di Gilbert Roland, attore messicano che io adoravo. Il tono scanzonato del film sorprende pubblico e critica ed anche i produttori; dopo i western truculenti questo mia interpretazione divertente è subito accettata come innovativa... cominciano ad arrivare le varie proposte, soprattutto dopo il successo straordinario di critica e di pubblico.

Cosa mi puoi dire del produttore Edmondo Amati, con il quale hai spesso lavorato?
Il crollo del Cinema Italiano è dovuto alla scomparsa dei "produttori", quelli veri, quelli che amavano il progetto e lo creavano con tutti i mezzi a loro disposizione... ed Amati era uno dei grandi, uno che s'impegnava in prima persona nel difendere il prodotto e dare al regista tutti i mezzi richiesti! Un uomo straordinario... tutti i films che facemmo insieme sono stati dei successi. Lui non voleva leggere le varie sceneggiature: voleva che io gli raccontassi il film scena per scena... io sono un ottimo story-teller e così lui aveva la sensazione esatta della mia visione del film e non l'ho mai deluso!

I tre che sconvolsero il west è un western ironico, con un trio di protagonisti formato da Frank Wolff, John Saxon e Antonio Sabato. Cosa ti ricordi di questi tre attori?
John Saxon, come Roland, era un attore che seguivo da anni e mi piaceva molto... anche perché gli somigliavo enormemente... si é rivelato subito un ottimo attore, una bellissima persona ed un grande amico. Con Frank avevo già lavorato nel film di Klimovsky ed era un attore istintivo formidabile, infaticabile e sempre presente e pronto ad ogni mia richiesta professionale. Sabato, dalla bellezza aggressiva e selvaggia, arrivò al successo internazionale con "Gran Prix" e, forse, era troppo giovane per gestire questa improvvisa notorietà.

Quella sporca storia nel west è ispirato all’Amleto di Shakespear. Come mai ha voluto adattare in chiave western questo grande classico shakespeariano?
L'idea fu di Sergio Corbucci, grande persona, grande regista, uomo dalla simpatia devastante. Non ebbe un grande successo in Italia soprattutto perché la distribuzione cambiò il titolo originale Johnny Hamlet in quello della "...sporca storia...", credo che se la gente avesse capito che era la versione western del capolavoro di Sheakespeare, anche solo per criticarlo, sarebbe andata a vederlo molto più numerosa... questa vecchia piaga che i distributori hanno avuto il potere di cambiare i titoli non l'ho mai accettata.

In Ammazzali tutti e torna solo ha collaborato alla sceneggiatura Joaquin Romero Marchent. Com’è stata la collaborazione?
Nella realtà non c'é stata: nelle coproduzioni con la Spagna doveva esserci sempre anche lo sceneggiatore spagnolo, per legge, ma non partecipava mai alla stesura del copione. Era più facile pagarlo per usare il suo nome e basta.

Vedendo il film ho trovato numerosi riferimenti al cinema e allo stile di Robert Aldrich e a Quella sporca dozzina… Avete tenuto in considerazione questo film in fase di scrittura?
Assolutamente sì! Con tutta l'ammirazione che avevo per Aldrich e tutti i suoi films. Sono sempre stato un suo grande fan.

Nel 1969 lasci momentaneamente il western per girare La battaglia d’Inghilterra, un film ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, con Van Johnson e Fredrick Stafford protagonisti. Com’è stato lavorare con questi due attori americani?
Stafford era australiano, molto professionale, molto attento, persona educatissima e rispettosa... come attore un po' freddino... ma lo prendemmo perché aveva interpretato l'ultimo film di Hitchcock, Topaz e speravamo che aiutasse molto il cast... ma il film del maestro del brivido fu un flop... invece Van Johnson fu l'altro grande attore che adoravo sin da piccolo che sono riuscito ad avere in un mio film. Van é una persona divertentissima, correttissima, superprofessionista e meraviglioso attore.

Gli occhi freddi della paura è un thriller da camera molto teso. Fai uso di grandangoli, immagini frammentate, oniriche. Anche l’uso del montaggio è quasi sperimentale…
E' un film che amo molto ma purtroppo la produzione e la distribuzione fallirono prima che uscisse il film. Non è uscito mai nelle sale... l'ho visto dopo anni in televisione! E' l'unico film che ho girato in sequenza, in ordine cronologico, dalla prima scena all'ultima. L'ambiente della villa l'ho disegnato io, mentre scrivevo la sceneggiatura con Tito Carpi. L'ho poi costruita nei teatri di Cinecittà. L'unico ricordo triste é quello di Frank Wolff : il suo dramma familiare, quello che lo ha portato al suicidio é nato in questo film. La moglie ha tradotto il copione in inglese ma dopo i primi giorni di girato lei abbandona Frank per un altro uomo... il povero Wolff vive questo fatto in modo drammatico, giorno dopo giorno il suo umore peggiora dolorosamente... esattamente come il personaggio che interpreta... la sua sofferenza ed afflizione segue fedelmente il tormento del ruolo che sta recitando, è un dramma nel dramma... finito il film ne comincia subito un altro ed il primo giorno di lavorazione si toglie la vita.

Com’ è stato lavorare con Giovanna Ralli, Gianni Garko e Fernando Rey?
Giovanna meravigliosa donna, attrice istintiva ed intelligente e bellissima. Gianni un gran bravo ragazzo, un attore superdisciplinato, dalle doti naturali e con una grande carica di professionismo. Rey un signore in ogni aspetto : come uomo, come attore, come amico... che persona stupenda!

Come ti sei trovato a lavorare con Jack Palance sul set di Tedeum?
Mi avevano avvertito che Palance era un tipo molto difficile, molto introverso, chiuso e poco incline alla socializzazione... bugie! Jack era una persona straordinaria, colta ed amante dell'arte, rispettosissimo del prossimo ed anche timido. Ho stretto una grande amicizia con lui avvalorata dalla sua passione per l'arte che ci permetteva grandi discorsi sulla pittura, scultura ed architettura... e poi l'altra passione che ci legava é stata la boxe. Grande amico di Mohamed Alì ha dovuto rispondere a tutte le domande che gli facevo su questo mio grande mito!

In Ettore Lo Fusto hai avuto l’opportunità di dirigere Vittorio De Sica. E’ stato facile dirigerlo? Com’è stato il rapporto con il maestro del Neorealismo?
I Grandi Uomini si distinguono da tutti gli altri per la loro semplicità, professionalità, cultura, intelligenza, educazione e rispetto per gli altri, soprattutto dei più umili. Il primo giorno di lavorazione lui era sul mio set, malgrado avesse ottenuto il suo quinto Oscar. Non è andato a ritirarlo perché stava girando con me! Io dovevo dirigere un personaggio osannato in tutto il mondo, ammirato dai registi più grandi e riconosciuto come un artista completo...immagina con che soggezione ho affrontato la lavorazione ... ma ho trovato dal primo giorno di lavorazione un professionista a tutto tondo, rispettosissimo delle mie decisioni e pronto alla collaborazione in ogni momento. Ricordo indelebile : dopo il primo ciak, il papà del Neorealismo si gira verso di me con lo sguardo attento ed interessato a vedere se mi era piaciuta la sua interpretazione della scena! Sul set si é istaurata subito un'atmosfera di semplicità e tanto divertimento. Credo che in Ettore Lo Fusto io mi sia divertito più che in qualsiasi altro film.

Che ricordi hai di Orchidea De Santis, qui in uno dei primi ruoli importanti?
La ricordo come una bella ragazza, consapevole di essere attraente e puntuale nella sua interpretazione.

Com’è nata la figura del Vice Commissario Belli, poliziotto di ferro, che supera spesso i limiti imposti dalla legge e dalle istituzioni in La polizia incrimina la legge assolve?
Quando Amati mi offrì un film poliziesco accettai immediatamente ma richiesi che le mie ispirazioni dovevano essere prese da Getaway, Bullitt e French Connection... il mio film poliziesco doveva iniziare con un emozionante inseguimento (Bullitt), invece di metterlo nel finale come tutti i films... con la violenza di Getaway e la semplicità e naturalezza dei protagonisti di French Connection. Amati sposa subito queste mie esigenze e scatena me e Tito Carpi nell'invenzione della storia. Tito ed io prendiamo l'ispirazione nell'omicidio Calabresi. Chi poteva essere il protagonista ? Risposta semplice, il nostro giovane attore più bello e più conosciuto nel mondo è uno solo: Franco Nero ! Il successo di questo mio film, in tutto il mondo, determina l'inizio di quel genere che, con un termine che odio, viene chiamato "poliziottesco".

Questo film inaugura la felice collaborazione con Franco Nero. Cosa mi dici di questo attore che tornerà protagonista in molti altri tuoi film?
E' bravo, bello, parla un inglese perfetto, recita benissimo, qualità atletiche sorprendenti, ha un amore per il Cinema incredibile, è conosciuto nel mondo intero... che potrei volere di più in un protagonista? Il nostro sodalizio nasce il primo giorno di lavorazione e continua in eterno... ci piacciono gli stessi films, gli stessi registi, anche sugli attori andiamo d'accordo, abbiamo un rispetto reciproco ed un affetto fraterno che è cresciuto di giorno in giorno, di film in film, di anno in anno!

Franco Nero è l’interprete principale, l’anno successivo, de Il cittadino si ribella. Questo film ha un ottimo ritmo, ma l’originalità risiede soprattutto nella figura di Carlo Antonelli, un uomo comune costretto a farsi giustizia da sé. Rispecchia una generale disillusione che caratterizzava l’Italia di quegli anni?
E quelli di oggi no? Continuo a pensare che un remake del film sarebbe più attuale in questi tempi che allora. Ma Edmondo Amati purtroppo non c'é più... i produttori di oggi contano solo sui fondi governativi ed i contratti televisivi.

Com’è stato lavorare con Barbara Bach?
Una bellissima donna, una bella persona, una grande signora.

Keoma è un capolavoro del genere western. Probabilmente l’ultimo vero western italiano. Il protagonista assume caratteristiche messianiche, viene sottoposto ad una crocifissione...
Avevo già usato la crocifissione in Johnny Hamlet e la userò poi in Jonathan degli orsi.

Lo stile del film è quasi fumettistico. E’ stata una sua scelta stilistica o era già previsto in sceneggiatura, scritta con Luigi Montefiori?
Non trovo assolutamente che sia fumettistico. Non é certo stato un mio target. E' un film molto cupo, tenebroso, barocco, con grandi significati allegorici che ho "rubato" a Bergman. Il grande amore paterno mi ha spinto nel rappresentarlo con grande passione... ancora mi commuovo quando vedo la scena della morte del padre... Montefiori scrisse il soggetto, la prima sceneggiatura scritta da Roli l'ho stracciata ed ho girato il film (quello che amo di più) inventando scena per scena, giorno per giorno, con la collaborazione e solidarietà di tutti gli attori e soprattutto del produttore che me l'ha permesso...

Il film ha un grande cast. Che ricordi hai di icone western come William Berger, Woody Strode e Donald O’Brian?
Con Berger avevo già lavorato in una seconda unità di un film western diretto da Mario Maffei... ero aiuto di De Martino e lo stesso produttore, visto che giravamo di notte, mi offrì di non dormire di giorno e finire questo suo altro film interrotto. Trovai in Billy un attore supermodesto, bravissimo e tranquillo come pochi. E' stato un piacere immenso averlo in Keoma, ha dato molta classe al personaggio del padre. Woody ha realizzato un altro sogno : quello di lavorare con un attore che ho sempre tanto ammirato. Durante la lavorazione non lasciava mai il set e mi osservava mentre dirigevo...solo all'ultimo giorno mi confessa, assai ammirato, che vedermi lavorare gli ricordavo tanto John Ford! Questa meravigliosa affermazione è stata il mio Oscar! Parlando di Donald O'Brian lo ricordo come un gran professionista, serissimo e sempre disponibile. Un viso duro in un animo nobile. Educatissimo e molto rispettoso. Un gran piacere lavorare con lui. Mi addolorò molto la notizia di un suo incidente automobilistico dal quale è uscito con molte menomazioni.

Con Il grande racket torni al poliziesco. Trovo che il film abbia una visione del mondo senza speranza, molto nichilista. Anche il confine tra bene e male è molto labile…
Anche questo mio film potrebbe ripresentarsi oggi nelle sale ed apparire come un film appena girato. Il confine tra bene e male, ai nostri giorni, è ancora più nebuloso...e la visione che ho del nostro mondo lascia poco alla speranza.

Cipolla Colt è un western ironico, molto atipico. Ci sono alcuni elementi bizzarri, come il cavallo parlante o le cipolle usate come armi. Come giudica la sceneggiatura di Sergio Donati e Vincenzoni?
Ottima... e mi ha permesso di inventare tanti cambi e tantissime gags... questa sceneggiatura mi ha regalato la possibilità di "gozzovigliare" nei slapstick , nelle tante scene surreali e nella sfrenata voglia di realizzare tutte quelle situazioni che ho sempre amato nel film-cult Hellzapoppin', credo sia il film che ho visto più volte in assoluto. Ho fatto una proiezione per i miei studenti dell'Università di Alicante ed ha avuto un successo strepitoso. Anch'io mi sono divertito molto, erano anni che non lo vedevo. 100 minuti di totale entertaiment ! E poi nel film c'é un altro mio mito Sterling Hayden, regalo che mi sono fatto nel chiederlo al produttore Carlo Ponti con enorme insistenza...fino a che mi ha concesso di chiamarlo. Fantastico ! Quando me lo sono trovato sul mio set quasi non ci credevo. Che grande fortuna fare questa professione e goderne in maniera totale. Viva il cinema!

Intervista di Edoardo Favaron, autunno 2008. Prima parte. Foto da http://en.wikipedia.org/wiki/Enzo_G._Castellari

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. 15-23/10/2009. UNA QUESTIONE D'ONORE


Italia 1966.

Retrospettiva su Luigi Zampa quest'anno a Roma. Figura di regista che, pur avendo firmato titoli molto noti -bastino Il vigile e Il medico della mutua-, non è quasi mai citato. Un pò più professional e non all'altezza di altri come Risi probabilmente, interessato soprattutto a mettere in scena correttamente copioni ("Un regista [...] deve raccontare e basta, e tanto più sarà bravo quanto più sarà riuscito a far credere nei personaggi, a commuovere o divertire con loro"*), ma come minimo Vivere in pace, con Aldo Fabrizi, Ave Ninchi e dei soldati americani da nascondere, e Anni difficili, schietto e amaro spettacolo popolare che "ricordava agli italiani che erano stati fascisti" (Fofi), sono bei film. Una questione d'onore non è un bel film, però è una bizzarria che aguzza l'attenzione. Perchè già fare interpretare a Tognazzi, cremonese, un sardo, che si sforza di avere quell'accento e di parlottare quella lingua, è una scelta singolare, che strappa sorrisi soprattutto all'inizio: lui che impettito cavalca il suo ciuco è un'immagine che funziona. Ma Zampa e i suoi sceneggiatori non sono scemi: che Tognazzi non sia credibile è voluto, palese, il gioco è scoperto. Si tratta di una commedia, quasi di una farsa. Il far vestire all'attore panni incongrui funziona come una leva per evidenziare l'assurdità, la pesantezza delle situazioni in viene a trovarsi il personaggio, meglio ancora il livello retrogrado, anacronistico della Sardegna profonda, coi suoi rigidi schemi comportamentali e di controllo sociale. E il film parte in quarta sin dalle didascalie iniziali a sfottere questa "sardegnità", presentando il territorio come qualcosa di peggiore del far west.
Tognazzi è un ometto che alcuni fratelli pastori vogliono costringere a sposarsi con la loro brutta sorella, che però dopo anni di carcere si rivela mutata in una bellezza (ma la cosa non funziona, perchè Nicoletta Machiavelli non appare brutta nemmeno nella fotografia in cui si finge lo sia). Nel frattempo, continua una faida di lunga data tra due famiglie, riaccesa da un arzillo vecchietto a cui pare la cosa più sensata da compiere. Tognazzi ci finisce in mezzo perchè Bernard Blier (francese... dato per sardo) lo va a trovare al nord, dove è fuggito per una falsa accusa, per chiedergli di uccidere di nascosto un'ultima persona che metterebbe fine alla faida. Lui non compie il delitto, passa la notte con la moglie: che rimane incinta. Ma come sottrarsi all'accusa di essere cornuto, dato che ufficialmente non c'era? E' l'ultima parte del film soprattutto quella che giustifica il titolo: il protagonista si trova schiacciato dalla situazione, recita anche un litigio con la moglie per far sentire il tutto ai paesani. Il marchio disonorevole pare irremovibile, al punto che, in una penultima sequenza seria ma poco convincente visto il tono del resto, che con un colpo di coda cerca di alzare la drammaticità di quella che resta una commediola, sbrocca aderendo lui stesso all'apparenza, che sembra essere l'unica cosa che conti. E' simpatica la presenza frequente dei carabinieri, sguinzagliati per tenere d'occhio la situazione della faida, sullo sfondo delle scene, come spettatori che vigilano tranquillamente, per dovere. La battuta più divertente, rivolta da Tognazzi alla moglie: "Che ci mettiamo a discutere se è meglio essere bagassa o cornuto?".

Alessio Vacchi

*
Gianluigi Rondi, dal Catalogo del festival.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. TRA LE NUVOLE


Tit. or. Up in the Air. Usa 2009. In sala dal 15 gennaio 2010.

Sarà una copertura o vero amore, la storia di George Clooney con la miracolata Elisabetta Canalis? Non ci frega, tantopiù che chi scrive non ha visto il film alla presenza dei due. Quello che ci interessa è che Clooney sia un attore pregevole, che fa piacere vedere sullo schermo. In Up in the Air veste il suo personaggio con disinvoltura, simpatia, agio; non fa chissà che, ma talora riesce a far ridere tutta la sala soltanto con la mimica facciale. Attore e personaggio paiono fondersi, mantenendo intatta l'attorialità di Clooney ma anche credibile il carattere interpretato. Sarà una banalità, ma viene in mente Cary Grant. Jason Reitman, nome emergente della commedia, è un regista furbo: Thank You for Smoking, accomunabile a Tra le nuvole per la presenza di un protagonista maschile che svolge un lavoro sgradevole, era un film provocatorio ma un pò inconcludente, Juno, con una grande Ellen Page (e a questo punto è il caso di dire che i protagonisti Reitman se li sceglie bene), era un film vivace e apparentemente anticonformista ma ruffiano e familista. Fermi tutti: non che sia per forza un male, il familismo. Ma andiamo con ordine.
Clooney è un licenziatore di professione, pagato da capi poco coraggiosi per comunicare ai dipendenti il benservito, con charme, cercando di non deprimerli e di far balenar loro la possibilità di un futuro. Amante dei viaggi in aereo con cui si sposta da uno stato americano all'altro per lavoro, intreccia una relazione molto occasionale con un'altra accanita viaggiatrice. Ci sono altre donne, nel film: una giovane collega, che con l'idea di licenziare tramite collegamento web rischia di fargli perdere il posto, e che lui si trascinerà qua e là per iniziarla al mestiere. Anna Kendrick interpreta simpaticamente questa figura apparentemente sicura e tutta d'un pezzo, destinata ad ammorbidirsi ma, forse per fortuna, non ad avere una storia col protagonista. Poi c'è una delle sorelle, prossima a sposarsi, per il cui conto lui porta in giro una sagoma di cartone raffigurante lei ed il futuro marito, per fotografarla su sfondi diversi, fornendo così loro un surrogato di viaggi che non hanno fatto, che non possono fare, al contrario di lui.
Reitman è astuto, si diceva, anche perchè il film tocca il tema assolutamente attuale della crisi e del lavoro che può interrompersi da un momento all'altro, soffermandosi più volte sulle reazioni perlopiù incredule dei licenziati, fino ad arrivare a un picco di drammaticità nella scena dell'inumano licenziamento che si compie da due stanze adiacenti. Il film, dopo una prima parte più sorridente e vivace (ma il dialogo solo a tratti si accende in stile slapstick), ne fa seguire una seconda più seria, dai sorrisi più malinconici, coincidente con gli ultimi fuochi lavorativi del protagonista e la presa di coscienza della sua solitudine. Il personaggio vorrebbe mettere la testa a posto, ma non riesce, forse non ha costruito abbastanza per poterlo fare. La vita è meglio se vissuta in compagnia, il contatto umano è importante. Tutto giusto ma il film calca troppo la mano, come non si fidasse dell'intelligenza spettatoriale, nel comunicare alla fine il messaggio familista e che una vita vissuta come quellalà, non paga: gli ex licenziati che ricordano come hanno tirato avanti grazie alla loro famiglia sono pleonastici.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. BUNNY & THE BULL


UK 2009. Di Paul King. Con Simon Farnaby.

Stephen è chiuso nel suo appartamento, prigioniero di una vita solitaria e patologicamente metodica: mangia sempre lo stesso cibo, ordina i pezzi della sua vita in numerosissime scatole. Inoltre, ha delle allucinazioni, in cui vede tra gli altri il suo amico Bunny. Ma cosa è successo qualche anno prima? Vediamo Bunny, estroverso, disordinato, privo di inibizioni, libero e godereccio trascinare l'altro, timido, mite e che ancora pensa ad una sua fiamma, in un viaggio finalizzato anche a farlo concludere con qualcuna. A loro si unisce una ragazza conosciuta in un fast food di pesce, Captain Crab. Tra una disavventura e l'altra, inutile dire che l'unico a darsi da fare con le donne, compresa lei, è Bunny, a scapito di Stephen. Bunny qua e là è personaggio davvero pesante, antipatico, e i due caratteri sembrano doversi scontrare apertamente. Avere un amico così sarebbe vivificante, ma farebbe pure venire delle crisi. Ma per l'altro, pare essere in ogni caso il suo migliore compagno. Il trio va a trovare il fratello matador della ragazza, e qui il destino dei due protagonisti incombe, con un colpo di scena. Bunny fa e disfa tutto nella vita dell'amico, e alla fine ha anche la funzione di farlo uscire dal suo isolamento (in un finale comprendente uno dei controcampi più scontati che si ricordino). Ma attenzione: quel che si legge da più parti, che il film sia "un road movie ambientato tutto in un appartamento", è sviante se non falso: come si sarà capito, si tratta di flashbacks.
Per questo film inserito nella sezione "L'altro cinema-Extra", Michel Gondry è il riferimento più limpido e immediato. L'influenza del regista francese si riscontra nelle scenografie, nel gusto per il colore e le trovate, per la presenza di più piani, tra reale, surreale, reale ma animato con stili differenti. Diciamo che dietro c'è, da Gondry, qualcosa di più preciso ancora: il co-protagonista, interpretato da Edward Hogg, ricorda il Gael Garcia Bernal de L'arte del sogno, e tutta la sua dinamica di ragazzo timido che non riesce a realizzarsi sentimentalmente con chi desidera, non può non far pensare a quel film. Che era meglio: almeno là il protagonista era un sognatore visionario, e c'era Charlotte Gainsbourg invece che una irritante ragazza spagnola. Qui invece, il tutto non gira bene, e chi scrive è arrivato a 2/3 di visione un pò scocciato. Troppo artificioso, senza che si crei magia, e un pò scontato (scopata ardente stile film compresa), difetti che hanno come conseguenza, purtroppo, la noia. Per fortuna il personaggio di Bunny, ha delle uscite divertenti, e non è niente male come follia anche l'ubriacone russo che vuole farsi il finto orso che i due protagonisti, ad un certo punto, si portano in giro ("Hai delle belle spalle... Dopo faremo sesso"). Ecco, alla fine Bunny & the Bull si salvicchia più per alcune scene divertenti che non per altro, il che non è il massimo. Peccato perchè i titoli di testa ostentatamente creativi, scritti sulle superfici più svariate, da indumenti a scatole, potevano predisporre bene. A quanto si legge in giro, comunque, qualcuno ha gradito.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. THE WARRIOR AND THE WOLF


Tit. or. Lang zai ji. Cina 2009. Di Zhuangzhuang Tian. Con Jô Odagiri.

Lu viene assoldato dal generale Zhang per combattere tra le sue fila, contro le tribù che premono ad ovest della Cina. In mezzo alla violenza, tra i due nasce un rapporto di rispetto ed amicizia. Una volta a capo delle truppe, Lu si trova costretto a rifugiarsi, causa neve, in un villaggio abitato dagli Harran, tribù che vive sottoterra e instaura un rapporto passionale con una donna (Maggie Q) che fa capolino nella sua tenda. C'è una maledizione che grava, in questo posto: chi trasgredisce le regole si muterà in lupo. Nella vita segnata dal mestiere della violenza del protagonista, il sentimento, che sia quello per il suo generale, quello dolce per il suo cane o quello rude per la donna, è comunque una parentesi, e il lupo è l'animale, non a caso temuto, che rappresenta il suo destino.
E' vedendo film come questo in fuori concorso che si ha l'impressione che il festival di Roma proietti, in alcune sezioni, selezionando grossolanamente, a seconda di quel che c'è a disposizione. La gente in sala, già poco numerosa, se ne esce, già durante la prima parte (il che invero è un pò eccessivo, evidentemente anche ai festival ci sono spettatori che non sanno cosa stanno per vedere). "Non è un film da festival" si sente dire: ed è abbastanza vero, non tanto perchè sia un "kolossal", un film "di genere", ma perchè le qualità in The Warrior and the Wolf si cercano col lanternino. Bisogna dare atto al film di non essere banale strutturalmente: ci si mette un pò a orientarsi nella narrazione oscillante continuamente tra presente e passato della prima parte, e sono svariate, forse eccessive, le ellissi affidate a didascalie riassuntive, che dicono del passare del tempo e dei movimenti dell'esercito. Dopo il rapporto tra Lu e il suo generale, quel che interessa al film è soprattutto il rapporto tra Lu e la donna, inizialmente basato solo sul sesso e sulla sottomissione di lei, poi sfociante in legame inevitabile, oltre che nascosto all'esterno, tutto svolgentesi, tra un amplesso e l'altro, al riparo. Ecco: lo spettatore si sorbisce ripetutamente gli accoppiamenti dei due, in scene che fanno sbuffare, in cui non si vede praticamente nulla se non pelli e schiene sudate, il che può essere una scelta produttiva o legata alla disponibilità dell'attrice, ma altrimenti ci sarebbe stata maggior vivezza.
Il cercare di far parlare le immagini, riducendo il dialogo ad un grado basico (il maggior numero di parole è scambiato tra Lu e la donna, e non da subito), non è certo un male in un film che dovrebbe possedere dell'epicità, in cui si combatte. Ma le scene di battaglia sono brevi e girate alla buona, con piani stretti e veloci; l'insieme è opaco, poco interessante, inevitabilmente noioso e alla fine pure inconcludente, perchè l'esca lanciata nelle parole del personaggio di Maggie Q, riguardo la metamorfosi in lupo, non si concretizza in nulla di che, perlomeno nulla di chiaro o di soddisfacente. Si salvano un pò la tempesta di sabbia e la breve lotta coi lupi, troppo digitali, del protagonista. Ma nel complesso The Warrior and the Wolf è mediocre e indisponente.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. CINEMA. FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA. A SERIOUS MAN


Usa 2009. In sala dal 4 dicembre.

Aperto da un prologo "iettatorio" in lingua ebraica, col sorriso sulle labbra, venato di horror (chi scrive ha pensato ai Vurdalak, messi in scena nei 60s da Mario Bava), A Serious Man, ultimo film dei Coen e anteprima tra le più attese a Roma, si incentra su un mite professore di origine, appunto, ebraica che si trova a far fronte a una serie di incidenti: uno studente mediocre gli fa pressioni e ricatti per farsi promuovere, la moglie di punto in bianco gli comunica che vuole divorziare perchè ama un altro -un grosso signore ebreo dai modi calmi e melliflui-, il fratello è un mattoide che rischia l'arresto per motivi vari. In più, il vicino, americano tutto d'un pezzo, lo inquieta, i due figli sono poco gestibili tra ossessione per il look di lei e le canne di lui, e c'è una vicina di casa, milf da competizione, che lo attrae.
Il film prosegue, meglio, la linea coeniana che stava già tutta, per rimanere al penultimo film e all'ultima commedia, in Burn After Reading. Pur non essendo questo un film corale, perchè sta sul protagonista e gli altri sono al loro posto, abbiamo una galleria di casi umani, i personaggi sopra le righe che ci si possono aspettare in un film dei fratelli, anche se sorvegliati dall'attenta loro regia. A partire da lui (un bravo e simpatico Michael Stuhlbarg, dalla postura sempre più curva col passare degli eventi) e dagli altri accennati sopra, per proseguire coi rabbini consultati per cercare di cavare un senso a quanto capita, e le cui entrate in scena suddividono fittiziamente il film in parti. L'esistenza è costellata di sfighe ed eventi inaspettati, ma i Coen nel raccontarcelo non cadono nella paradossalità fine a sè stessa (se non nella sequenza del sogno col fratello, ma è appunto un sogno). E' quindi umano cercare un perchè, ma la morale è esplicitata già all'inizio: "Accogli con semplicità tutto ciò che ti succede". Conviene accettare gli eventi di cui siamo in balia, cercare risposte non porta a niente: qui i rabbini non servono a niente in tal senso, anzi quel che esce loro di bocca è straniante o inutile quanto quel che si sente da altri, quanto la telefonata surreale di un anonimo venditore di collane di cd. La visione del mondo che ne esce è espressa in toni di commedia, dolceamari, ma a guardar sotto è triste e nera, come se la vita fosse un incubo di cui siamo prigionieri.
Ci sono alcuni elementi respingenti per il pubblico, che i Coen evidentemente si possono concedere. Imbevendo la vicenda di ebraicità, facendo riferimento alla loro formazione e prendendone in giro la religione (che non è loro obiettivo primario, ma checchè ne dicano, vista la filosofia sottesa e i cretinotti messi in scena, non ne può uscir molto bene), utilizzano dei termini ebraici, sicuramente non sempre comprensibili per chi non abbia dimestichezza con quella cultura, anche se certe cose si intuiscono (il bar mitzvah) o son fatte capire (il gett). L'altro elemento è il finale, perchè tutta la fetta di pubblico che si è incazzata con quello di Non è un paese per vecchi (non a ragione), qui avrà di che ululare, con una chiusura tronca, sospesa, persino moralistica, ma cercare la rotondità in una commedia simile, dei Coen, non serve e sono ultimi minuti di notevole efficacia cinematografica. Ecco, non si tratta di un film magnifico, ma è Cinema, con senso della scrittura, dell'umorismo, dell'immagine e anche del suono: i battiti durante la scena della canna con la vicina, i Jefferson Airplane e la loro strafamosa Somebody to love che accompagnano più momenti, compreso uno dei più divertenti, protagonista un rabbino "moderno".
A.V.