domenica 8 dicembre 2013

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL, 22-30/11/2013. AU NOM DU FILS

Belgio 2012. Di Vincent Lannoo.

Elisabeth è una donna religiosa, sposata con due figli. Conduce in radio una trasmissione cristiana a base di telefonate degli ascoltatori, con un prete in studio, inizialmente il rotondo padre Achille, che ospita in casa. La sua vita è sconvolta da alcune rivelazioni e lutti che la spingono a mettere decisamente in discussione le cose e le persone in cui credeva, e a impegolarsi in una vendetta armata che sente come unico modo per ristabilire un po' di giustizia. La Chiesa non ci difende più, quindi bisogna fare da soli, pensa: ma scoprirà che quanto sta facendo finisce inserito in uno schema più grande.
Il 31esimo TFF è stato aperto da questo film belga, proposto nella neonata sezione “After Hours”. Presentato come una bomba provocatoria, Au nom du fils affonda le mani senza paura in temi come il connubio chiesa & pedofilia e lo fa spargendo sangue. In definitiva gli si attaglia bene l'aggettivo “pasticciato”, anche se qualche bersaglio, bene o male, lo raggiunge. Come l'ipocrisia delle figure di chiesa, che qui con fervore rivoltano le accuse contro le vittime e volendo anche l'ironia sui dogmi religiosi, nelle telefonate alla radio (es. l'inconfutabilità dell'assicurazione di una vita oltre la morte). La lotta contro gli integralisti islamici di cartone, parte dell'addestramento contro “i nemici” proposto da un inviperito prete spretato che opera in mezzo alla natura, è invece un'idea più debole, così come gli ultimi minuti, in cui il film si spegne un po'.
Con scarti grotteschi, scandito in “livres” e da morti violente che funzionano come shock visivi/narrativi, il film, virulento e di grana grossa, suscita qualche sorriso e qualche risata raggelata. Lannoo, che è anche tra gli sceneggiatori, continua ad essere coccolato dal festival (addirittura questo avrebbe dovuto essere in concorso, Martini dixit), ma gli manca qualcosa per spiccare un salto dall'essere “solo” confezionatore di film bizzarri e interessanti. Credibile, nei panni del prelato-padrino, Philippe Nahon (che i cinefili ricorderanno almeno in Alta tensione).
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. BIG BAD WOLVES

Israele 2013. Di Aharon Keshales, Navot Papushado.

Un maestro di scuola dall'aria mite viene menato con efficienza da un poliziotto, Micky, e due sgherri prezzolati: si tratta di un sospetto pedofilo. Qualcuno filma il pestaggio, il maestro viene rilasciato e una bambina viene ritrovata, morta orrendamente, in un bosco. Micky viene sospeso dal servizio, ma è convinto, non si sa bene perché, che il suo obiettivo fosse quello giusto. Lo torna a cercare, ma della stessa idea è anche il padre della bambina, Gidi, un attempato agente dei servizi segreti che ha preso in affitto una casetta fuori mano in cui conduce il maestro, dal quale vuole farsi dire la verità a suon di torture e con l'intenzione di ucciderlo in ogni caso, e il poliziotto, a cui “chiede” di aiutarlo.
Benedetto (per un futuro di successo, si intende) dall'apprezzamento di Quentin Tarantino, è un altro film di questa edizione, dopo Au nom du fils, che tratta di pedofilia e vendetta con tinte forti, declinazioni di genere e l'uso del grottesco. Qui, una vendetta meticolosa ma che si rivela più che inutile è ciò intorno a cui si ruota. La coppia di registi gira facendo molto “cinema”, sin dall'incipit, con uno stile un po' gonfio (crescendo musicali), movimenti di macchina lenti, ralenti, inquadrature frontali, centrali e simmetriche (in panoramico) e, meno positivamente, con crescendo musicali ogni volta che siano inseribili. Il loro film non è scontato: non volge il tutto verso una sadica bloodfeast (nonstante gore e sadismo non manchino), ma gioca la carta di un abbondante umorismo disinvolto e molto nero, tanto da giungere a un passo dal comporre una ricetta con un ingrediente sfuggito di mano (metafora appropriata, considerata la torta che Gidi si prepara con piacere fra una tortura e l'altra). Per dire, battutacce prima di iniziare il lavorio sul malcapitato e la scoperta che anche il tuttodunpezzo Gidi ha qualcuno sopra di sé a cui rispondere, nella vita: l'anziano (ma l'attore ha meno anni di quanto necessario) padre.
Il film porta a essere tentati di simpatizzare per un personaggio, quello del poliziotto Micky, che è un figlio di buona donna, ma è reso con una performance non certo respingente e a confronto di Gidi, chiaramente, è Gandhi. Si è liberi di vedere il film carichi di senso morale e quindi fermarsi lì, nel qual caso discorso chiuso e film bocciato. Ma a chi scrive sembra che questo sia ampiamente bilanciato dalla piega finale che prendono gli eventi, nel coraggio di un finale non consolatorio. Film promosso quindi, a patto di non pensare all'improbabilità di certi comportamenti dei personaggi (e certi deus ex machina). Con un ameno passaggio che fa dell'umorismo sui rapporti degli ebrei con gli arabi.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. FLOOD TIDE

Usa 2013.

In una cittadina da tempo impoverita vive un gruppo di giovani artisti/musicisti. Quando la loro amica Maya si toglie la vita, per renderle omaggio montano una zattera e partono, incontrando curiose costruzioni, fermandosi a nuotare o a suonare. Più che un viaggio, una peregrinazione senza precisi limiti, accompagnato dalla presenza, a loro inavvertibile, della morta.
Visto nella sezione “Onde”, Flood Tide è il primo lungometraggio del tuttofare Todd Chandler, che ne è regista, sceneggiatore, montatore, produttore, è tra gli attori e membro fondatore dei Dark Dark Dark, band i cui membri compaiono nel film e ne hanno composto la colonna sonora. Film che nasce da un progetto più grande: Chandler infatti è tra i creatori di un progetto collettivo per la costruzione di grandi zattere fatte di rifiuti, con cui navigare lungo il Mississippi. Progetto che si è legato ad altri simili, tra cui uno svoltosi lungo il fiume Hudson ed è proprio durante quel viaggio che è nato il film, con cast/troupe/musicisti che si sono spostati suonando qua e là, cosa che faranno ancora. A questo punto va però detto che tutte le precedenti righe sono più interessanti di Flood Tide in sé.
Aperto e chiuso da immagini girate da una mdp che scorre sull'acqua e scandito con regolarità dalla voice over postmortem e dalle riflessioni della suicida – una volta morti ci si dissolve, si diventa parte di un tutto, di conseguenza lei è nell'acqua insieme agli altri – , non è un racconto tradizionale ma un'elegia, o una “narrazione calma”, nelle parole del regista e le interazioni fra i personaggi, che comprendono qualche breve scena familiare, sono ridotte.
Chandler, non adottando un punto di vista immersivo, con ogni probabilità sarà stato cosciente che i suoi non diventano veri personaggi. Ma così non c'è pathos, non c'è senso dell'amicizia e quello del lutto è soltanto detto. Il risultato è quindi noiosetto e moscio. Più che un vero film, un'esercitazione dietro la macchina da presa, ma poco proficua. Le musiche, almeno, sono pregevoli ed è soprattutto da lì che viene il buono: https://myspace.com/darkdarkdarkband/music/songs
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. THE STATION

Tit. or.: Blutgletscher. Austria 2013. Di Marvin Kren.

Isolato sulle fredde Alpi dell'Austria, un gruppetto di scienziati sta conducendo ricerche sui cambiamenti climatici. Tra loro spicca Janek (che assomiglia un poco a Magic Voice), tormentato e non domo, rimasto lì per un trauma personale, con il suo cane. Scoprono prima che i ghiacciai assumono un colore rosso, poi che il liquido responsabile produce mutazioni genetiche e le creature che ne vengono a contatto possono trasmetterle anche da specie a specie. Dubbi se rivelare la minaccia a parte, la tensione sale perché in pericolo non sono solo loro, ma c'è in arrivo una delegazione con a capo il ministro dell'ambiente, accompagnata anche dalla ex di Janek.
Kren, che nel genere aveva già diretto Rammbock, porta nella sezione “After Hours” questo horror dall'ovvio richiamo a La cosa. Che si prende un po' sul serio, stando anche alle sue dichiarazioni: quanto succede nel film è conseguenza delle gesta dell'uomo, che se continua così si scaverà la fossa da sé. Ma se voleva girare un film di genere serio e con messaggio, non c'è riuscito molto, perché The Station, nonostante i personaggi seri & tosti, è sbilenco, non ben padroneggiato e non si fa prendere molto sul serio né lascia particolari impressioni, insomma non ha molto con cui compensare il (purtroppo) risaputo assunto.
La regia è prima nervosa, per diventare qualche volta isterica: non male l'attacco al rifugio, risolto inizialmente con un'unica inquadratura con tutti i personaggi. Purtroppo da un certo punto in poi emerge un umorismo spesso involontario, che il pubblico ha rilevato esagerandone la portata (nulla di esilarante, per chi scrive). Kren la butta in caciara e con perplessità si prende atto dell'evoluzione del personaggio, scritto male, della donna ministro, una Merkelotta che prima sembra stare mitemente dietro la sua guardia del corpo, poi, quando la situazione inizia a degenerare, si trasforma in una belva di attivismo e rabbia. In un film che, soprattutto inizialmente, pare avere pochi fronzoli, spiace anche la linea narrativa legata al rapporto tra Janek e la sua squinzia, coi loro riferimenti al passato e, dulcis in fundo, una sorta di lieto fine quantomeno discutibile. Nonostante tutto questo e una fotografia che fa contrastare il freddo grigio montagnoso con un'estetica cartolinesca in certe parti con la delegazione, non è un film brutto né detestabile: a Kren sembra mancare però più gusto.
Per cercare di spaventare, qualche volta pasticcia (l'attacco al bodyguard Luca, montato troppo repentinamente). Abbastanza schifose, comunque, le varie creature, tra cui un artigianale scarafaggione. 
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. THE STONE ROSES: MADE OF STONE

UK 2013. Di Shane Meadows.

Gli Stone Roses, band di Manchester esplosa a fine anni '80 e scioltasi per vari problemi a metà anni '90 poco dopo un secondo album, annunciano ufficialmente una reunion. Meadows, loro fan, segue conferenza stampa, prove, nuovi concerti, in progressione verso le date annunciate a Manchester, facendoci intanto ripercorrere un po' della loro storia.
Non serve assolutamente essere un fan degli Stone Roses (magari non essere tipi “O brutalcore o niente” sì) per godersi questo nuovo film di Meadows, i cui lavori sono sempre presenti al festival da quando la Martini è vicedirettrice. Tra le visioni più contagiose e all'altezza delle aspettative di quest'edizione, è un documentario non convenzionale, diretto da quello che è dichiaratamente un fan e unisce una passione evidente con il fare del cinema. Meadows si mette in scena, spiega il suo coinvolgimento nel progetto e ad un certo momento, nell'incertezza sul futuro di band e documentario, fa il punto in progress. Giustamente, mette la musica spesso in primo piano (sebbene il numero finale dei brani sia limitato) e fino all'ultimo. L'intro notevole è ripreso nei potenti, sia dal punto di vista musicale che visivo, ultimi minuti in cui le riprese dell'esecuzione di un brano del concertone di Heaton Park nella loro città natale, con lunga parte strumentale finale, sono punteggiate di immagini degli spettatori, ralenti, fans esaltati, pubblico che entra a porte aperte. A quel punto, parla la musica, non c'è bisogno di altre parole.
Prima vediamo, con scelta azzeccata, le prove in studio, tra i segmenti del film fotografati in un bianco e nero curato. Per la band, che abbiamo visto dichiarare essersi ritrovata prima di tutto sul piano umano, le cose sembrano tornare a girare bene, i musicisti sembrano sereni e pimpanti e il frontman Ian Brown canta con professionale tranquillità (mentre i fans si esaltano e sudano). Poi, con musica tenue, c'è l'amarezza del post-concerto di Amsterdam, chiuso male dal batterista che se ne va e che mette la band in bilico: intelligentemente Meadows ne approfitta per completare il discorso su problemi e separazione nei 90s degli Stone Roses. “Nessuno ci ha dato dei calci in culo”, dicono di loro riguardo quel periodo, definendosi in pratica ragazzini con troppi soldi: e in un'intervista d'epoca proposta più indietro danno un'immagine di noncurante baldanza giovanile, mettendo in difficoltà i giornalisti con risposte monosillabiche e mostrandosi pieni di sé.
Divertente e dà perfettamente il senso di cosa possa essere la musica nella vita di ognuno, la parte dedicata alla distribuzione dei biglietti per il primo concerto della reunion, a posti limitati, annunciato da radio e social newtork. C'è un senso positivo di speranza, attesa e dedizione nella gente che si dichiara alla mdp: chi ha lasciato di corsa il lavoro e si è messo in coda coi vestiti sporchi, chi dice di aver raccontato balle al capo. Poi, la delusione di chi non ce l'ha fatta e l'entusiasmo (“Il miglior concerto della mia vita”, “Fanculo gli Oasis”) di chi esce dall'evento. “Nella vita le cose belle qualche volta succedono”, dice un fan. La musica ci accompagna nella vita e ci fa star bene. E, tenendosi più bassi, ad un festival fa piacere una visione musicale energetica così.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. PELO MALO

Venezuela 2013. Di Mariana Rondón.

All'interno di un casermone nella periferia di Caracas vive Junior, col fratellino bebé e la madre Marta. I pensieri di Junior sono rivolti al riuscire a lisciarsi la massa di capelli crespi, fare una bella foto di classe (che però costa) prima che ricominci la scuola e, complice la nonna nera da cui qualche volta la madre lo lascia, diventare un cantante. Con Marta, però, il bambino ha un rapporto infelice: lei lo mal sopporta e non c'è feeling tra i due.
Sicuramente uno dei film migliori tra quelli nuovi visti da chi scrive al festival, vincitore per la miglior sceneggiatura e la migliore attrice (Samantha Castillo), Pelo malo è scritto bene, credibile e forte di personaggi interessanti. Se la violenza dell'ambiente dove i protagonisti vivono è solo evocata (si parla di violenze sessuali, si sentono spari a distanza), quello che tarpa le ali alla serenità di Junior è la vita con la madre. Marta, vedova, attualmente senza lavoro e impegnata nel tentativo di recuperare l'impiego precedente di vigilante, è una donna presa da sé, dalle cose che deve fare e i posti in cui deve recarsi, sempre seria, con una tendenza al comando nei confronti del figlio maggiore (“Devo essere d'esempio”, dice ad un certo punto). Sembra patire la difficoltà del vivere; la sua insicurezza e la sua incertezza del futuro la rendono indurita e quasi incapace di lasciarsi andare. Anche se ha dentro di sé un'energia, anche sessuale e legata al sentirsi donna, che qualche volta viene fuori (per esempio nel ballo, che da allegro si fa aggressivo, con Junior o nella scena di sesso al volo con un fusto del palazzo: buona scena erotica, non così gratuita).
E questo figlio un po' introverso, lei non lo accetta e non lo capisce. Quando lui la fissa, lei si irrita: “Non guardarmi così”. Ma poi è lei a guardarlo corrucciata, quando si comporta in modo strano (o che percepisce tale). Junior è praticamente considerato un elemento di preoccupazione in più; figuriamoci il sospetto, in cui questo si traduce, che sia omosessuale.
La Castillo è sicuramente molto brava nei panni di questo personaggio di madre non snaturata, ma che sbaglia; un personaggio che sarebbe schematico, e non farebbe un buon servizio al film, liquidare come negativo, anche se raggiunge uno sgradevole punto basso quando fa sì che suo figlio guardi, per riportarlo sulla via dell'essere “uomo”, mentre lei si lascia possedere dal capo. Di conseguenza, si sta dalla parte del simpatico bambino, mentre lei suscita pena. Le scene con i divertenti dialoghi fra lui e l'amica, determinata nel volersi far fare una foto da miss, fanno storia a sé.
Un film felicemente affrancato da convenzioni, che lascia in bocca un sapore dolceamaro: alla qualità del film e alla catchiness della canzoncina Mi limon mi limonero cantata da Henry Stephen (che spicca in una colonna sonora altrimenti molto parca), si contrappongono l'asprezza di questo rapporto madre-figlio come non è corrente vederne al cinema e un finale non consolatorio (al bambino però è concessa una piccola soddisfazione sui titoli di coda). P.S. Tutto questo superando l'imbarazzo del cartello iniziale della società di distribuzione: FiGa Films.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. TRAFFIC DEPARTMENT

Tit. or.: Drogówka. Polonia 2013. Di Wojciech Smarzowski.

Corpo di polizia municipale di Varsavia, quasi tutti uomini e “brutti, sporchi & cattivi”: dediti ad alcool, prostitute e corse molto più che al lavoro, dove la corruzione è pratica quotidiana. In seguito a una notte brava, uno di loro viene trovato morto. Principale sospettato è il sergente Krol, perché sua moglie era l'amante del morto e lui gli doveva dei soldi (non che fosse l'unico). Prima di venire arrestato fugge e, dimostrando una ammirevole capacità di muoversi in incognito, cerca di scoprire per conto suo la verità. Che è grossa, perché comprende appalti truccati e malavita.
Una delle sorprese del festival, nella neonata sottosezione “Europop”, Traffic Department sfoggia un approccio al genere molto moderno e quasi sperimentale. Non si tratta di un film d'azione in senso comunemente inteso, non ci sono colpi d'arma da fuoco e c'è tutto sommato più sesso che violenza. Ma per descrivere un mondo e narrare la sua vicenda, elabora, con una frenesia che a un certo punto diventa funzionale a un protagonista che non ha tempo e non si può fermare, il semplice assunto che tutti ormai fanno riprese e vengono ripresi. Smarzowski, anche sceneggiatore, e il suo montatore Laskowski segmentano tutto il materiale visivo senza fronzoli, con scene e sequenze tagliate in modo secco, e qualche volta i tasselli irrompono in modo brutale. In questo modo servono allo spettatore un film dal ritmo elevatissimo, che non può che tenere sulla sedia, ma gli chiede al contempo un coinvolgimento attivo. Necessita dell'attenzione perché non tutto è chiaro, non tutto è spiegato bene, almeno non subito, né sottolineato. A cominciare dalle istanze che filmano quel che si vede (Krol, per esempio, visiona un'infinità di video da cellulari per cercare di capire di più), per proseguire con le rivelazioni e gli snodi della matassa. Il che può anche essere preso semplicemente come un difetto e per il pubblico medio sicuramente lo è (su questo si tornerà fra poco).
Un film convinto, che si prende (abbastanza) sul serio, d'impatto, il cui paradosso è che a forza di affastellare senza requie, neppure in momenti più narrativamente rilassati, una cosa ad un'altra, risulti alla fine (e post-visione) meno incisivo di come vorrebbe. Anche se dopo quasi due ore a tambur battente, è efficace come l'iperattivismo del film e del suo personaggio principale (una scheggia umana!) si contrappongano, con una sfumatura che ha dell'esistenziale, alla sostanziale immobilità della lunga inquadratura finale, quando tutto ormai si può fermare, ma le cose non sono andate affatto nel migliore dei modi.
La Polonia ne esce come IL paese della corruzione e i suoi vigili come un branco di goderecci costantemente ubriachi e (pardon il gioco di parole) trafficoni. Ora, il film è stato un grande, inaspettato successo in patria. È scontato, ma è il caso di scriverlo: in Italia non solo non sarebbe possibile concepire e girare un film del genere, ma tantomeno che il pubblico lo premi. Basti pensare all'immagine che dà di paese e forze dell'ordine, a ciò che fanno gli attori (Arkadiusz Jakubik, che interpreta uno dei colleghi da cui Krol cerca momentaneo asilo, passa il tempo a smaltire la sbornia e ciulare, con riferimenti all'ingoio), alla possibilità che il pubblico che fa la fila solo per le commedie nostrane apprezzi un film dall'involucro avviluppante ma dall'interno meno facile, oltre che ambiguo. Siamo un paese immaturo anche in cose come questa. Nel corso di un momento ambientato in un bordello, sentiamo inequivocabilmente: “Bunga bunga!”.
A.V. 

Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=CJ1ea3pTtrs

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. LFO

Svezia/Danimarca 2013. Di Antonio Tublén.

Robert vive da solo, perché ha perso moglie e figlio in un incidente non chiaro. Conduce a casa esperimenti sulle frequenze audio, finché giunge a un risultato che si guarda bene dal condividere con gli altri “hobbisti” coi quali è in contatto: una frequenza che ipnotizza gli esseri umani e permette di comandarli. Armato di cuffie e comandi manuali, sceglie come cavie i due vicini di casa, una coppia: approfitta sessualmente di lei, ricrea una famiglia intorno a sé, li usa come servitori. Rischia di farsi scoprire e deve cambiare i suoi piani più volte, ma riesce a mantenere il controllo della situazione e poi mirare più in alto.
È un soggetto interessante, che poteva essere trattato in modi differenti. Tublén, che scrive, monta e dirige questo film proposto in “After Hours”, sceglie un approccio raffreddato, anche fotograficamente, relativamente minimale nella sua ambientazione fra quattro mura, fuori dalle quali gli sconfinamenti sono limitati all'audio. Con qualche scelta di inquadratura originale (tagliate sopra o sotto) e soprattutto con un umorismo controllato, che sgancia di tot in tot, nonostante il trattamento che il protagonista riserva alla coppia sia crudele. Nell'ultima parte il film diventa un po' un apologo, una riflessione sul potere assoluto portato fino ai limiti estremi - cosa si farebbe, se si fosse Dio? - e rivela qualche ambizione pervasiva nei confronti dello spettatore (vedi il finalissimo).
Non è un film che gira perfettamente fino alla fine: inevitabilmente, tra un comando e l'altro, rischia la ripetitività e si poteva togliere qualcosa, almeno qualche intervento della moglie defunta, che tanto è una funzione - fa da allarme per la coscienza di Robert, rappresenta il suo passato prossimo non realmente elaborato - e non dice niente di così importante. Un dubbio secondario, comunque, rimane: perché caratterizzare il protagonista come un uomo che si nutre praticamente solo di uova?
A.V.

domenica 27 ottobre 2013

Incompresi. Comici allo sbaraglio. I QUATTRO DEL PATER NOSTER

Italia 1969.

I quattro del pater noster è diretto da un Ruggero Deodato ancora lontano dalla fama dovuta ai film estremi/cannibalici: il suo film precedente è un musicarello con Little Tony, il successivo un cappa&spada sexy. Il regista ha affermato che fu difficile avere tutti e quattro i protagonisti, all'inizio del successo, insieme sul set, dati i loro impegni in tv. Di loro è Oreste Lionello quello che aveva già il maggior numero di apparizioni sul grande schermo. La distribuzione del film fu bloccata e rimandata causa sciopero dell'Istituto Luce: il film uscì qualche mese dopo, un po' allo sbaraglio, incassando in modo medio. Dopodiché, I quattro del pater noster (o Il temerario, finto nuovo titolo di una riedizione post-fantozziana, su manifesti col solo Villaggio), nonostante parte del cast, diventa il classico titolo da cinefili strampalati, oggi recuperabile in un vhsrip scattoso, con un paio di saltini.
Due compari che viaggiano assieme in carrozza (Villaggio-Toffolo) si appropriano di una cassa piena di monete d'oro, sottraendola a dei banditi che l'hanno appena rapinata da una diligenza. Si unisce a loro un predicatore (Lionello), cercano di restituirle, ma vengono presi per i malfattori e arrestati. In cella incontrano un peone rivoluzionario, che si rivelerà inadeguato e un po' infido (Montesano), col quale fuggono, ma uno di loro si prende il malloppo. I banditi di nero vestiti, dei cattivi non così temibili, li ritrovano e impongono loro di ritrovare e restituire il malloppo. Si ritrovano ed escogitano un piano: taroccare la roulette del casinò dei banditi (sic), affinché la gente si rivolti loro contro. Ma la conclusione sarà un accordo, in concomitanza con una rissona (poteva mancare?).
Non che sia il primo western umoristico italiano girato nel pieno del genere: i Brutos e Ric e Gian avevano già dato. Questa è una commedia western ed anche smaccata parodia: più volte il film finge di essere un western serio, o gioca con i moduli del genere, per poi sfociare in burla. L'inizio, emblematico, con i primi piani dei volti duri di Villaggio e Toffolo, che paiono in procinto di sfidarsi, ma una vera sparatoria sarà appannaggio, poco dopo, di altri personaggi; la cattura dei quattro sospetti banditi, che diventa una breve rissa; il duello fra Toffolo e Montesano, con tanto “rumore” Leoniano perché poi ad uno la pistola si inceppi e all'altro scivoli.
Oreste Lionello è poco riconoscibile, non fosse per la voce; quella di Villaggio è un po' stridula e l'attore propone già, rapidamente, gag che diventeranno punti fermi fantozziani - il grido in un angolo dopo essersi fatto male, il masticare di nascosto - ; Toffolo, che porta in giro la sua facciotta da ingenuo tranquillo ed è vestito di lunghe pelli, è leggermente stucchevole. Il migliore, quello che mostra più vena comica, è Montesano. Inaspettata una gag anacronistica, con Lionello che fa la cronaca stile radio (o tv) di uno scontro che sta coinvolgendo i suoi compagni, e che noi non vediamo, ad un gruppetto di popolani. Mentre spesso si dovrebbe ridere per piani capitomboli (compreso uno stunt notevole). Il tutto è passabile, a patto che non si chieda di rovesciarsi dalle risa.
La colonna sonora di Luis Bacalov vanta un tema serio, bello, sin troppo per il tipo di film (e anche da lì nasce il rovesciamento comico), e un altro che accompagna le gesta comiche dei protagonisti (serrate, nella prima parte), con piglio demodé. C'è tempo anche per una canzoncina (cantata da Villaggio e Toffolo). Si segnala un passaggio nella neve che, pur senza essere probabilmente una citazione, non può non far venire in mente allo spettatore che conosce lo spaghetti western Il grande Silenzio. Tra gli sceneggiatori figura Maurizio Costanzo (all'epoca autore di programmi di varietà come, quell'anno, È domenica, ma senza impegno, con Villaggio e Lionello).

Qui un lungo e bel trailer, nonostante i colori appassiti, narrato da Villaggio: occhio al finale.

Alessio Vacchi

Incompresi. Comici allo sbaraglio. FURTO DI SERA BEL COLPO SI SPERA

Italia 1973. Su dvd IIF/Rai Cinema.

Quinto, che a inizio film vediamo cercare di rubare macchine parcheggiate mentre parla da solo, non sa stare lontano dal furto. Raduna perciò alcuni riottosi compari – lo strafalcioneggiante Armando, il meccanico Marcello dalla moglie incinta e sempre incazzata (Costanza Spada, moglie di Franco nella vita), Euforia, bizzarro personaggio, un gitano, doppiato da Ferruccio Amendola, dall'apparenza mortuaria (la quale ovviamente dà origine a diverse gag) e dalla parlata italo-romanesco-anglo-spagnola – per un colpo apparentemente grosso: si tratta di sottrarre un quadro di valore dall'abitazione di un benestante (un bravo Giuffré, che ha una manciata di sequenze), il quale sarà sedotto e distratto da una prostituta, che Quinto vuole credere brava ragazza. La banda, però, è a tal punto scalcagnata da finire con l'essere poco convinta di ciò che fa, quasi al punto di mollare e poi fallire in modo grossolano il colpo. Che viene effettuato, ma segue un colpo di scena: diciamo che non tutti hanno agito in modo “onesto”, i soldi non prendono il giro previsto, ma non per questo la furbizia di chi ha creduto di cambiare vita arricchendosi pagherà, perché qualcun'altro sarà stato più furbo ancora.
Quadri, colpi ladreschi e colpi di scena: magari a qualche pazzo verrà in mente In Trance leggendo queste righe, ma qui c'è Pippo Franco, a capo di una manciata di poco capaci “soliti ignoti” non proprio destinati al successo, come protagonista. Che non perde mai l'occasione per una battuta, per una osservazione atta a suscitare la risata, rendendo la pellicola costellata di umorismo. L'impressione, per quanto riguarda l'attore (che, ricordiamolo, l'anno prima era comparso in un cameo in un film di Billy Wilder, particina solitamente citata dai critici per rimpiangere il suo potenziale che sarebbe andato dissipato in tutte le altre sue produzioni), non è quella di un film recitato con la mano sinistra, ma di un'occasione in cui potesse sfoderare tutte le sue doti di attore comico e battutista. Poi certo, il risultato non è più che vedibile e inevitabilmente (?) qualche volta si ride, molte altre si abbozza un sorriso per uscite un po' facili, troppo marcate o da spirito di patata, provenienti a cadenza regolare da parte del suo personaggio di estroverso consapevolmente sfortunato, che le prende più volte. E la parte ambientata in casa del commendatore (Umberto d'Orsi) si fa chiassosa. Tuttavia, a ripercorrere la filmografia di Laurenti, facile che questo sia uno dei suoi film più dignitosi (non si arrabbino i fans delle commedie sexy) e meglio scritti (da lui, Franco e i soliti Mercuri e Milizia). La volgarità è irrilevante, marcando in ciò una distanza dal cinema del Bagaglino che di lì a pochi anni sarebbe arrivato. Le buone musiche sono di Pippo Franco, che in apertura e chiusura propone anche un brano cantato, Furto di sera.
Da citare infine le esibizioni dei vari immancabili marchi 70s, che non mancano affatto, anzi in ospedale si serve acqua Pejo e in un altro momento una bottiglia di J&B è ben alzata a favore di camera.
A.V.

Incompresi. LE FINTE BIONDE

Italia 1989. Su dvd Medusa.

Prodotto da Achille Manzotti e tratto dal romanzo omonimo di Enrico Vanzina pubblicato pochi anni prima, Le finte bionde è uno dei capitoli meno fortunati della filmografia vanziniana degli anni '80, sebbene, Marco Giusti docet, dopo il flop nelle sale (non entrò neppure nei primi 100 titoli della stagione) il film ebbe un recupero in tv come “assoluto cult del mondo romano”; più avanti aggiunge, giustamente, “assolutamente per romani, forse”*.
A poca distanza da Via Montenapoleone e in vena di insistere sulla loro inclinazione di osservatori socioculturali (l'essere tali è argomento principe di chi li sostiene) di un'umanità che va tra i burinazzi e le classi medioalte o chi vorrebbe rientrarvi, i fratelli chiamano nel cast alcune protagoniste della coeva trasmissione tv di successo La tv delle ragazze: Cinzia Leone (in gran spolvero), Alessandra Casella, Francesca Reggiani. Sono tra le “finte bionde” che il film ambisce di raccontare: una categoria composta da borghesi romane coi soldi (e relativi compagni), che conducono una vita di livello ma sotto sono delle cafone, bionde perché, come illustrato all'inizio in una sequenza dove il personaggio della Leone se ne rende conto e va a farsi la tinta, sono loro a dominare. Con l'accompagnamento di una voice over (di Oreste Lionello, che presumibilmente recita passi del libro), il film prende e lascia le sue coppie di personaggi procedendo per sequenze tematiche, a costituire una specie di affresco di vita e quadro umano. Gli ambienti in cui i personaggi si muovono e mangiano (la trattoria di Mattioli, quando non si pasteggia a casa con ospiti), il problema di dove andare in vacanza e di trovare un appartamento adeguato, le spese... Questioni simili a quelli che si possono trovare in un romanzo dell'800 ambientato nell'alta borghesia, qui illustrate in uno spaccato sociale a matita grossa di fine anni '80. Gli oggetti, anche: una sequenza (in cui compare il caratterista Renzo Ozzano) mostra la moda del telefono, ancora con fili, in macchina e un'altra la “videomania” del possedere un numero spropositato di televisori e girare e conservare filmini di ogni cosa. I problemi sentimentali-sessuali restano a margine, relegati a qualche scenetta con personaggi lampo o alle sequenze con la litigiosa coppia Casella-Massimo Wertmuller. I protagonisti parlano di futilità, si cercano e si incontrano ma al contempo si criticano l'un l'altro. Stile e orizzonti di vita sembrano creare loro soprattutto stress.
Alcune notazioni e battute sono carine (esempio, Mattioli che, preoccupato, dice alla debole moglie di non svenire, ché potrebbe perdere l'abbronzatura; o la coda di inservienti stranieri a fare commissioni per i padroni), ma resta una pellicola che si guarda con un vago senso di fastidio. Per via della botta di romanità cui si è accennato e da cui si può essere un po' respinti, e per i personaggi estroversi e pesanti (Antonello Fassari...) messi in scena con occhio ammiccante e interpretati con spavalda sicurezza, di modo che si capisce come si cerchi la risata ma paradossalmente viene frenata. Anche se nell'ultima parte i Vanzina sembrano voler compensare e dare il fatto loro ai personaggi, il cui viaggio di ritorno da una vacanza collettiva in Brasile (che non vediamo) risulta in un'odissea causa maltempo, al punto che sono costretti a dormire in stazione, scambiati per poveri immigrati.
Guido Nicheli, avvocato sposato con Paola Quattrini, è tra i più bravi (suo un rimarchevole “Merviglius!”). Ci sono anche Sergio Vastano, Licia Colò e in ruoli minori Isaac George, Claudia Gerini, un capelluto Pino Insegno, che ha una sequenza in cui cerca di concludere con la sua ganza. Antonio e Marcello de I fatti vostri compaiono nei panni di loro stessi e firmano la colonna sonora, compresa la title track dei titoli di coda, introdotti dalla presentazione di interpreti e personaggi, ognuno soprannominato con la storpiatura di un titolo di film. 
A.V.

*"Dizionario dei film italiani stracult", Sperling & Kupfer, 1999, pag. 288.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. SILENZIO SI NASCE

Italia 1996. Di Giovanni Veronesi.

Attenzione: “film di interesse culturale nazionale”. Due gemelli eterozigoti, definiti sui titoli di testa “il forte” uno (Castellitto) e “il piccolo” l'altro (Rossi), nella pancia della madre litigano, si avvicinano, cercano di capire il mondo che li aspetta fuori e quello in cui sono confinati: la vita appare loro come una faccenda confusa e poco allettante, tanto che ipotizzano una resistenza al “controllo” dei genitori e non vorrebbero neppure nascere.
Dopo titoli di testa che scorrono su della sabbia che smotta e che ribolle, il film epicizza la venuta all'esistenza (ragionando in un ottica pro-life, sottinteso) dei due, che emergono dal di sotto in quello che è scenografato come una sorta di pianeta sconosciuto, con pareti placentose, aperture da cui proviene luce di diversi colori, montagnole di sabbia; emerge prima il Forte, poi l'altro, che il primo non vorrebbe affatto fra i piedi e col suo essere parecchio incazzato fa sì che la prima parte del film abbia pochissimo humour. Attraverso una parete-schermo, il Piccolo vede immagini del mondo esterno: l'assassinio di Kennedy, finti spot di linee telefoniche, Carlo Conti, ma anche brani di film (Cotton Club e l'episodio Che cosa sono le nuvole?), da cui prende spunto per brevi monologhi in cui interpreta e spiega le cose à la Paolo Rossi, ciclo della vita compreso. L'altro contatto con l'esterno è immaginato: ipotetici flashforwards ambientati su una spiaggia, che ospita un'abitazione (senza pretese di realismo), in cui i due litigano per, praticamente, incesteggiare con la madre, mentre in un'altra sequenza si immaginano assediati, armi in pugno a lottare per la volontà di non nascere.
La madre è una Filippa Lagerback (doppiata) allora nota per essere la bionda della pubblicità Peroni, di cui un brano è tra le visioni del Piccolo nella pancia. Tra i due infatti nascono dubbi di natura sessuale, compreso il loro genere di appartenenza, che culminano in un lungo bacio (sic). Non manca anche un amplesso tra i genitori vissuto da dentro in modo preoccupato, con un cappellone-missilone che il Forte tenta di spingere indietro (ri-sic). Il tutto è narrato in flashback, con la voce off di Castellitto mentre i due, in procinto di nascere, sono nudi – come saranno per tutto il film – , lucidi e incapsulati in palle trasparenti. La fotografia nel pianeta-pancia, in cui il blu predomina, è scura, come i corpi dei due nascituri, chiazzati di luce, che si portano appresso un lungo cordone ombelicale. La sensazione che questi danno è un po' sgradevole e probabilmente non ha contribuito all'appeal del film presso il grande pubblico: si tratta infatti di un flop (nonostante il passaggio dei protagonisti a Sanremo, che Giusti ricorda) anche se meno sonoro di come si potrebbe pensare, dato che superò il miliardo. I due, comunque, non giocano a fare i bambini e assomigliano piuttosto, solo per il dato visivo-corporeo, a due uomini primitivi. Ci sono anche degli interventi in voice over dei genitori che comunicano fra loro: la voce del padre suona familiare, e infatti è quella di Leonardo Pieraccioni, mentre la madre è Margaret Mazzantini, moglie di Castellitto. Sono partecipazioni non rilevate dalle schede Wikipedia e Imdb dei due.
Il film si prende abbastanza sul serio, ponendosi come riflessione, dai toni melanconici, sul nascere e sulla vita. Ma, sebbene Rossi e Castellitto non compongano una coppia comica rivelazione, forse avrebbe fatto meglio a prenderla più bassa. Non ci sarà scatologia, ma il risultato è pesantino e sembra un gioco tirato per le lunghe, in cui è perfettamente comprensibile stufarsi di questi due che giocano ai (quasi) bambini-adulti. Resta una bizzarria italiana che, a rivedere oggi, stupisce sia stata prodotta dalla Filmauro, ma è pur vero che la casa all'epoca dava luce non soltanto a incassi sicuri al botteghino (L'odore della notte è di due anni dopo). L'uscita fu preannunciata da un teaser trailer non reperibile sul tubo.
A.V.

Incompresi. Comici allo sbaraglio. LA GRANDE PRUGNA

Italia 1999. Di Claudio Malaponti. Su dvd Cvc.

“Il film con il maggior numero di comici di tutti i tempi!”, recitava la locandina: ma il meccanismo che porta al cinema un pubblico desideroso di rivedere chi sembra apprezzare in tv, stavolta non ha funzionato, mentre la critica si è messa le mani nei capelli. La “grande prugna” del titolo è il capoluogo lombardo, ambientazione di questo “ultimo film milanese del millennio”* che raccoglie molti comici di provenienza Zelig. Nella finzione, il centro da cui questi si irraggiano, idealmente più che fisicamente, è il “Famoso cabaret della zona”.
Poco fruttuoso da raccontare con puntiglio, il film va avanti per una serie di sketch o abbozzi, collegati da personaggi che fanno da ponte o che compaiono più di una volta, senza però diventare episodi che scorrono paralleli, con un inizio, una fine e uno sviluppo. E questo non aiuta a generare un vero interesse. Ricorrono Enzo Iacchetti nei panni di un giornalista che chiede a chi ferma: “Se avesse sei colpi in canna, chi ammazzerebbe?”, un complessino boliviano che suona il tema del film e, meno spesso, Flavio Oreglio, che impersona l'avulso commentatore Amletotò, vestito da bardo e con pelle scurita, cantando anche una sorta di ballata sui titoli di coda.
La forma può essere discutibile e non mostrare gusto, ma non è sciatta: Malaponti ci dà dentro con inquadrature dall'alto, dal basso, grandangolari. Uno stile che è parodizzato all'interno del film stesso (metacinema!), quando Iacchetti rimprovera il suo cameraman, che lo riprende da sotto in su: “Cosa inquadri? I fili, inquadri?”. Su questo punto il film riserva alla fine un colpo di scena; più un altro, che quadra poco e suona quasi stonato, relativo a una traccia narrativa su cui il film non aveva fin lì insistito, l'aggirarsi di un killer, “il Mostro dell'alfabeto”, che uccide procedendo un'iniziale di cognome dopo l'altra.
Approccia la satira sociale il segmento in metropolitana, con Ale e Franz guardiani che inseguono, goffamente ma con aria feroce come fosse un pericoloso delinquentone, un tizio dell'est che mendicava con la fisarmonica su un vagone. Non malaccio, con stile attoriale, lo sketch con Michele Foresta al bar gestito da Olcese e Margiotta, che ruota intorno a un presunto caffé non pagato/scontrino non fatto, con le reazioni schizofreniche, dal massimo di calma diplomatica allo spaccare tutto, del duo. Scuote l'attenzione un momento con Luciana Littizzetto incazzata e pistola in pugno (ma non sta facendo sul serio), protagonista anche di uno dei pesanti equivoci mimico-verbali a “sfondo” sessuale presenti occasionalmente nel film, con situazioni scambiabili per coiti e masturbazioni, soprattutto quelle che coinvolgono la coppia composta da un pornomane e una ragazza occhialuta che si conoscono al sexy shop: una gag si conclude con un facialone di latte sul viso di lei!
Purtroppo, per quanto si possa partire con la speranza di sollazzarsi, si ride davvero poco. Un'ora e mezza circa di “gran” parata di comici che scorre davanti allo spettatore, con sempre minore speranza che qualcosa conquisti e la noia che serpeggia. Una idea carina (ma che, si intende, non sposta più in su il giudizio sul film) è quella delle piccole fototessere dei componenti del cast artistico e tecnico che accompagnano titoli di testa e coda del film.
Questi ultimi si seguono con interesse per il “who's who” del nutritissimo cast di stelle e stelline dello humour tricolore, molti ancora noti, che animano il film in parti di variegata consistenza. Oltre ai nomi già citati: Enrico Bertolino (titolare di pompe funebri che subisce un contrappasso ad opera di una vecchietta), Marco Della Noce (goffo marito di una moglie di classe sociale superiore, a cui porta vergognosamente in dono un vaso ridotto in pezzi), Natasha Stefanenko (moglie di un tizio che vede il loro matrimonio come una prigione eterna; compare per poco, ma era rilevata nella locandina), Max Pisu (Tarcisio), Giorgio Ganzerli e Alessandra Faiella (separati), Antonio Cornacchione, Diego Parassole, Zap Mangusta, il duo Capsula & Nucleo, Raul Cremona (un presentatore), Gianni Fantoni (un arbitro e un sacerdote), Dario Ballantini, Leonardo Manera, Claudio Batta, Brunella Andreoli. Guest stars, la voce di Sandro Ciotti e Renato Mannheimer (sic, una comparsata, non nella parte di sé stesso).
Ad un certo punto si vede il manifesto del film immaginario Prugna meccanica (ebbene sì). La grande prugna fu sponsorizzato da Radio 105, il cui logo si intravede alle spalle del dj che trasmette da un aereo dismesso, e i cui manifesti della campagna pubblicitaria dell'epoca sono ben fatti notare nella sequenza in metropolitana.
A.V.

*"Nocturno Cinema" n.12, marzo 2000.

domenica 16 giugno 2013

The freak show. DR.ALIEN

Su dvd Cult Video (regione 1).

Oltre alle palle, oggi ho deciso di rompere pure lo schema e quindi vi parlo di Dr. Alien, che (sorpresa!) non è un film dell'orrore e pure come film di fantascienza è volutamente una farsa. Diretto dal maestro dei thriller STV un pò culattoni David DeCoteau, il filmozzo è una commediola leggera (talmente lieve che manco fa ridere) su un liceale sfigatello che finisce col fare da cavia ad una scienziata aliena per il suo siero della virilità. La trama sarebbe perfetta per un pornazzo d'altri tempi, il problema è che Dr. Alien NON è un porno, anche se fa dell'erotismo soft-core (più "soft" che "core") la sua ragion d'essere: il film è perciò infarcito di tette, ma, per essere fioriero di ipsazioni, richiederebbe un pubblico di tredicenni dell'era pre-Internet (d'altronde stiamo parlando del 1989). Visto al giorno d'oggi, provoca solo tenerezza. Nel cast fanno capolino (in una sequenza onirica) sia la pornostar Ginger Lynn che la mitica scream queen Linnea Quigley, mentre la sceneggiatura è firmata da Kenneth J. Hall, il tizio che creò i pupazzi di Hobgoblins. Da antologia il momento videoclipparo in cui il protagonista, trasfigurato dagli esperimenti in un rocker gocciolante testosterone, si lancia a cantare un pezzaccio intitolato Killer Machine davanti ad una platea di giovani permanentati: un'immagine che da sola cristallizza gli anni '80.
Emiliano Ranzani

The freak show. IL VENTO

aka Edge of Terror. Su dvd Image (regione 1).

Ah, Nico Mastorakis! Per i più, un ellenico carneade. Per noialtri malati di cine-macelleria, invece, un nome conosciuto per aver diretto il truce Destination-Il leggero fruscio della follia (Island of Death, 1977), film memorabile più per essere un raro esempio di exploitation greca che per meriti effettivi. Ad ogni modo, nel 1988, dopo aver lavorato per un decennio in altri generi (inclusa la fantascienza), il nostro torna al cinema "de paura" con Il vento, un moscissimo thriller girato in eccessiva economia. Protagonista della vicenda è una scrittrice americana (Meg Foster, in seguito vista in Essi vivono e recentemente in Lords of Salem) ritiratasi su un'isola greca mezza disabitata per lavorare al suo ultimo romanzo. Oltre al forte vento tipico della zona, il soggiorno è complicato da uno psicopatico che una notte decide di giocare con lei al gatto col topo. La sinossi sembrerebbe perfetta per una pellicola claustrofobica e compatta, ma Il vento è invece di una noia mortale, scevro della benché minima tensione, lento, sconclusionato e pure carente di efferatezze. Per la maggior parte del tempo, ci si ciucca la protagonista che parla da sola oppure che corre lungo la stessa viuzza buia e soffocata dai fumogeni. Qualcuno ha avuto l'ardire di paragonarlo al Dario Argento dei tempi d'oro, ma probabilmente l'ha fatto prima di farsi internare: l'unica cosa riuscita di tutta la produzione è la locandina. Se siete dei veri duri contropallati, dovete assolutamente recuperare la VHS italiana (edizione Eagle Home Video) per godervi uno dei doppiaggi più sciatti mai realizzati. 
E.R.

The freak show. DEATH MACHINE

Su dvd 01.

Prima di dirigere roba come Blade e The League of Extraordinary Gentlemen, Stephen Norrington si occupava di effetti speciali su film come Hardware di Richard Stanley. L'esperienza deve essergli piaciuta, visto che il suo esordio dietro la macchina da presa (in anno domini 1994) è un film su un robot assassino e nel cui cast appare pure uno dei protagonisti del succitato cult movie (il compianto caratterista William Hootkins). Entrambi i film, tra l'altro, non nascondono le fonti da cui attingono, ma, laddove Hardware era una visionaria, personale e folle rivisitazione di tanto cinema (e non) di fantascienza e dell'orrore, Death Machine è l'altra faccia della medaglia: un modesto b-movie partorito con gusto prettamente fanzinaro. La storia, come in Dimensione terrore popolata da personaggi con nomi tipo Scott Ridley e John Carpenter, ruota attorno attorno ad una scienziata e ad un gruppo di attivisti intrappolati nel quartier generale di un società di robotica, dove il mad doctor Jack Dante (il sempre sopra le righe Brad Dourif) ha sguinzagliato un mostro cibernetico che risponde al nome di WarBeast. E non aggiungo altro.
Dopo una prima parte lentuccia (nonostante l'istrionico villain), il film decolla con il secondo atto per poi perdersi a metà strada e divenire un fumettone scemotto a tutto tondo, con uno dei protagonisti che si fa trasformare in cyborg per affrontare il bestione metallico. Norrington non dirige male e qua e là ci infila pure qualche momentino truculento, ma a farla da padrone sono gli effetti speciali robotici, forse l'unico aspetto su cui (tanto per chiudere il cerchio) Death Machine può considerarsi superiore ad Hardware. I veri maniaci possono dilettarsi nel cercare di collezionare tutte e quattro le differenti versioni (incluso un director's cut di 111 minuti) con cui la pellicola è apparsa in giro per il globo. Gli altri, provino a dargli un'occhiata almeno in videocassetta…come? Non possedete un videoregistratore VHS? E allora che cacchio ci fate su 'sto blog? Smacchiate i giaguari?
E.R.

The freak show. CREEPOZOIDS

Usa 1987. Su dvd Full Moon (regione 1).

Nel 1987, la Terra del 1998 è stata devastata (ardiaje) dalla Guerra Nucleare. Un quartetto di soldati disertori, due uomini e due donne (tra cui la scream queen Linnea Quigley) trova rifugio nell'ennesimo laboratorio abbandonato dove, indovinate un pò? Sì, ci sta un mostro mutante che mangia i cristiani (Ma anche negri, ebrei, italiani o messicani - tanto per citare l'immortale Sergente Hartman).
Girato in un magazzino (e si vede) in quindici giorni (idem) da quel curioso personaggio che è David DeCoteau (uno che negli anni ha sfornato gli pseudo-horror più gay mai esisti, roba che in confronto la saga di Twilight è omofoba), Creepozoids è il classico menù del fast-food home video vecchia maniera: ambienti bui, tanta bava e le tette della Quigley, la cui presenza giustifica sempre (se non proprio impone) la visione. Considerando che il film dura solo 72 minuti, non è nemmeno un grosso sacrificio (specie se è venerdì sera e volete solo sprofondare sul divano). A parte l'appetitosa co-protagonista, forse l'unica cosa veramente intrigante del film è il titolo, talmente bislacco da essere citato pure da Stephen King ne La metà oscura. Il finale aperto lascia spazio per un seguito che non fu mai realizzato nonostante il successo sul mercato delle videocassette (erano altri tempi). In compenso, nel 1997 ne fu girato un remake intitolato Hybrid.
E.R.

The freak show. EVIL BREED

Su dvd Lions Gate (regione 1).

Un gruppo di liceali americani (alcuni dei quali abbastanza vecchi da essere fuoricorso pure all'università) in gita in Irlanda durante il periodo di Halloween diviene preda di mutanti cannibali discendenti dal leggendario clan di Sawney Bean.
La storia dietro questo film è decisamente più interessante del film stesso: annunciato nel 2002 con il titolo di Samhain (l'antica festività druidica poi divenuta Ognissanti), la pellicola prometteva di essere un festival del sangue a secchiate e della nudità gratuita, forte della presenza nel cast di tre star del cinema a luci rosse (Chasey Lain, Jenna Jameson e Ginger Lynn Allen). Dopo una travagliata fase di riprese, il film si ritrovò bloccato nel limbo della post-produzione, con il produttore Willam R. Mariani (reo, si dice, di aver messo su il film per riciclare fondi neri della mala) incapace di finire di pagare la troupe ed il regista Christian Viel trascinato in tribunale per aver cercato di obbligarlo ad onorare i suoi debiti. In quello stesso periodo, "qualcuno" (verosimilmente Viel stesso) ne mise in vendita su Internet la copia-lavoro priva di colonna sonora e mancante di alcune scene, finale incluso, ancora da girarsi. La vendita di questa versione pirata fu sospesa quando il film venne acquistato dalla Oasis International, evento a cui fecero seguito un nuovo montaggio e le frettolose riprese del finale (diverso da quello originariamente pensato e diretto da un altro regista) per chiudere il progetto e finalmente distribuirlo straight-to-video come Evil Breed: The Legend of Samhain. Tanto casino per un mediocre e derivativo slasher movie come se ne realizzano a mazzi oltreoceano (questo in particolare è canadese, ma cambia niente). Anche nella sua forma clandestina, Samhain è un banale mix di Halloween e Le colline hanno gli occhi, popolato da stereotipi precotti, "impreziosito" da un paio di dialoghi prelevati verbatim da Scream e totalmente privo di suspense. Le scene splatter, nonostante gli anatomicamente perfetti trucchi di Adrien Morot, risultano spesso e volentieri ridicole anche a causa dello humour (molto cazzone e tipicamente yankee) che vi serpeggia.
L'edizione ufficiale (più contenuta), per quanto dotata di un ritmo più spedito, è piena di buchi e conti che non tornano, mentre il nuovo finale rende il tutto ancora più inverosimile. Forse il suo unico merito è quello di essere stato concepito e girato in epoca precedente all'ondata di remake e torture porn iper-truculenti: se ai tempi l'avessero distribuito in versione integrale, forse avrebbe potuto divenire un piccolo cult (d'altronde, se è cult Non entrate in quella casa c'è speranza per tutti). Così com'è, invece, resta una goccia nel mare. 
E.R.

The freak show. HEMOGLOBIN-CREATURE DELL'INFERNO

Canada/Usa 1997. Su dvd Eagle.

Il terzo (e al momento ultimo) adattamento del racconto La paura in agguato batte bandiera americano-canadese e annovera tra i suoi sceneggiatori il duo Dan O' Bannon e Ronald Shusett, già responsabili di Alien e Atto di forza (O' Bannon fu anche regista de Il ritorno dei morti viventi e di un altro adattamento lovecraftiano, The Resurrected, basato su Il caso di Charles Dexter Ward): ma anche 'stavolta, chi si aspetta un capolavoro rimarrà deluso. A ben vedere, già la presenza nel cast del povero Rutger Hauer, a metà anni '90 ormai presenza fissa in tristi b-movies, dovrebbe fungere da spia di allarme. Che poi, per carità, dei tre film tratti da The Lurking Fear, Bleeders (questo il titolo per gli Usa) è il migliore, sicuramente il più compìto a livello cinematografico, anche se la fattura rimane comunque da film per la televisione.
Nel prologo veniamo a conoscenza di un'incestuosa famiglia olandese, i Van Daam, costretta a fuggire in America in seguito ad un editto regale che proibiva i matrimoni tra consanguinei. Flash-forward di qualche secolo ed ecco che in scena entra l'orfano John Strauss il quale, assieme alla moglie Kathleen, giunge sull'isola che gli ha dato i natali per cercare i suoi consanguinei con la speranza di trovare una cura per il misterioso male che lo affligge. Contemporaneamente, in seguito a scavi nel vecchio cimitero, la gente del posto inizia a sparire.

Come già detto, il film è qualitativamente due spanne sopra i due adattamenti precedenti, forte com'è di un budget sicuramente più dignitoso, ma non è esente da difetti. Il regista Peter Svatek, mestierante televisivo, gira col pilota automatico e proprio non gli riesce di creare tensione: non fosse per la colonna sonora (ripetitiva ma funzionale) e la fotografia di Barry Gravelle (che in seguito firmerà robaccia tipo Ice Spiders di Tibor Takacs), la pellicola sarebbe completamente priva di atmosfera. I feroci nani deformi dell'esperto SFX man Adrien Morot (che tornerà sul tema dei mutanti incestuosi nel 2003 con Evil Breed: The Legend of Samhain), per quanto spiritualmente vicini alle creature descritte da Lovecraft, non funzionano come dovrebbero e la quasi totale assenza di sangue non aiuta. Similmente al precedente film targato Full Moon, anche in questo adattamento il protagonista scopre di essere imparentato con i necrofagi sotterranei: per quanto il tema della parentela mostruosa sia ricorrente nei racconti di Lovecraft, La paura in agguato ne è esente. Pazienza.
E.R.

The freak show. LURKING FEAR

Su dvd Full Moon (Usa, regione 0); su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=XRctG-YLfTg

Il secondo adattamento (AD 1994) del racconto La Paura in Agguato di H.P. Lovecraft porta nientemeno che il marchio Full Moon. Ma visto che dietro la macchina da presa non ci sono Stuart Gordon o Brian Yuzna è bene frenare l'entusiasmo. Il protagonista questa volta è un ex galeotto in cerca del malloppo di una rapina, cucito dentro un cadavere a sua volta interrato nel cimitero di una cittadina di campagna. Sulle tracce del denaro c'è anche una banda di criminali, ma il vero problema è il branco di creature che vive nel suddetto cimitero.
Il plot ha ben poco a che fare con il racconto di Lovecraft e i collegamenti con lo stesso sono piuttosto esili (il nome del casato, i Martense, regredito a mostri e poco altro), però la sceneggiatura del regista C. Courtney Joyner (già autore dello script di Prison di Renny Harlin) ha delle premesse intriganti: purtroppo, come spesso accade, è la realizzazione in economia che ammazza tutto. La prima vittima è sicuramente la credibilità degli ambienti, ridotti in larga parte ad un paesino in Romania (con tanto di chiesa ortodossa) che dovrebbe passare per cittadina americana. A seguire c'è l'aspetto prettamente visivo, soffocato dalla necessità di girare meno pellicola possibile e così via fino ad arrivare ai mostruosi antagonisti (frutto del lavoro di Wayne Toth, ora collaboratore fisso di Rob Zombie), il cui make-up, nonostante il design accattivante, avrebbe beneficiato di qualche soldo in più. Nel cast vale la pena di sottolineare la presenza del sempre efficace caratterista Vincent Schiavelli e di Jeffrey Combs (l'Herbert West di Reanimator), a cui i produttori hanno appioppato l'onere di dover fare una strizzatina d'occhio al suo ruolo più famoso.

Uscito solo in home-video per il mercato USA, del film circola anche una versione diluita come parte di un'antologia (sempre marchiata Full Moon) dal titolo Tomb of Terror
E.R.

The freak show. DARK HERITAGE

Usa 1989. Con Mark LaCour. Su dvd Digital Video Dreams (UK); su youtube: http://www.youtube.com/watch?v=JvzyC2mjCNw

The Lurking Fear (La paura in agguato in italiano) è un racconto pubblicato a puntate nel 1921 dal grande H.P. Lovecraft sulla rivista letteraria "Home Brew": come diversi altri scritti del Solitario di Providence, anch'esso ha beneficiato (diciamo così) non di una ma bensì di tre trasposizioni cinematografiche.
Dark Heritage (altrimenti conosciuto come Dark Heritage: The Final Descendant) è il primo adattamento in senso cronologico ed è anche il più oscuro: trattasi infatti di una pellicola a metà tra l'amatoriale e l'indipendente, girato in 16mm da tal David McCormick (che in futuro, salvo omonimie, monterà film d'animazione come Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro). Spostando la vicenda dai Monti Catskill del prototipo ai boschi della Louisiana (questo passa il convento), la vicenda vede un giornalista indagare su alcuni sanguinosi omicidi compiuti durante le notti di tempesta e sul mistero che circonda una magione disabitata. Sulla carta, il film potrebbe essere uno dei migliori adattamenti di Lovecraft mai fatti, soprattutto per come ripropone e rielabora la scaletta degli eventi ed alcuni momenti chiave del racconto originale, ma purtroppo le buone intenzioni si arenano di fronte alla povertà di mezzi: le locations, al di fuori di alcuni uffici, sono spoglie e scarne, la fotografia è poco più che dilettantesca, il sonoro abbastanza terrificante e gli effetti speciali sembrano provenire da una tabaccheria durante il periodo di carnevale. Considerando il livello della produzione, è inutile infierire sui poveri attori, mentre invece lascia quantomeno perplessi la sequenza dell'incubo in bianco e nero ('na roba modello Twin Peaks dei poverissimi). Detto ciò, a qualunque ammiratore di Lovecraft non può passare inosservato il rispetto che McCormick e soci portano per il racconto originale, cosa che non si può dire degli adattamenti successivi. 
E.R. 

domenica 3 marzo 2013

The freak show. NIGHT OF THE SCARECROW



Jeff Burr è un solido mestierante del cinema americano, conosciuto soprattutto per aver diretto capitoli di serie di culto come il terzo Non aprite quella porta e Pumpkinhead 2: Blood Wings prima di sprofondare (come tanti altri) nelle oscure acque dello straight-to-video più squallido. Ad ogni modo, diamoci da fare, perché Night of The Scarecrow (AD 1995) è un gioiellino nel suo genere, forse il film più riuscito che il nostro amico di cui sopra abbia girato (anche se chi scrive ricorda con un certo piacere la sua antologia Il villaggio delle streghe/ From Whisper to a Scream). La trama è abbastanza di ordinanza per l'horror yankee: degli sbronzi ragazzotti sguinzagliati in un campo di grano liberano inavvertitamente lo spirito di uno stregone ucciso e ivi sepolto secoli prima, il quale procede col possedere uno spaventapasseri e, sotto tale forma, scatenare la propria sanguinaria vendetta sui discendenti dei suoi linciatori.
Nonostante la sinossi più o meno vista e stravista (anche se l'idea della città con un oscuro segreto, per quanto non freschissima, è sempre gustosa), ciò che eleva il film sopra la media è il brio visivo con cui Burr affronta le scene: soggettive e contro-soggettive, piani olandesi, luci strobo ed altri espedienti assortiti, quasi volesse lanciare una sfida al Sam Raimi dei tempi d'oro. A questo aggiungete una giusta quota di sangue, un po' di poppe che male mai fanno ed un paio di trovate piuttosto originali (vedi la scena dello stupro ai danni di una bella rossa) e vi ritroverete con un film che non fa paura, ma intrattiene quel tanto che basta. Inedito in Italia, Night of the Scarecrow è una rarità riservata ai collezionisti di VHS anche negli Stati Uniti. Peccato. 
Emiliano Ranzani

Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=gA1RYe__Svs

The freak show. ALIEN TERMINATOR


Di Dave Payne. Su dvd New Horizons (regione 1).

In un laboratorio sotterraneo si conduce il classico esperimento genetico top-secret. Le cose come da tradizione vanno a ramengo ed in men che non si dica i protagonisti si ritrovano con un mutante alle calcagna.
Nonostante il titolo, Alien Terminator (conosciuto pure come Alien Species, titolo che condivide con un altro film uscito in seguito) è in realtà un mix di Alien (ma dai?) e Andromeda, sebbene solo nelle intenzioni. Distribuito dalla Troma e con la produzione esecutiva del mitico Roger Corman (non stupisce quindi riconoscere materiale di repertorio usato anche in roba come Watchers 3 e compagnia), il filmaccio ha tutti i sintomi del prodotto straight-to-video: scenografie povere e perciò buie, inquadrature date col contagocce per risparmiare sulla pellicola, effetti molto poco speciali, computer grafica pezzente pure per il 1995 eccetera eccetera. Forse l'unica cosa veramente intrigante è la playmate Lisa Boyle, la quale già attorno al decimo minuto mostra il bel lavoro fatto da mamma sua e poi rifinito dal chirurgo plastico. A proposito di minutaggio, il film dura appena un'ora e venti, cosa che lo rende piuttosto rapido ed indolore nonostante ciurli pure nel manico. Da guardare comunque unicamente a vostro rischio. 
E.R.

Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=EfvMi-bhuv0

The freak show. ALIEN PREDATOR



Gli appassionati di pellicole "de paura" (ed il romanaccio è d'obbligo) conoscono Deran Sarafian principalmente per aver interpretato uno dei giovani soldati protagonisti dell'infausto Zombi 3 di Lucio Fulci, benché il nostro abbia accantonato quasi immediatamente la carriera d'attore per darsi alla regia, cosa che lo ha portato a dirigere dapprima horror a basso budget per poi approdare a serie televisive come Buffy l'ammazzavampiri e CSI. Il suo esordio dietro la macchina da presa avviene nel 1985 con Alien Predator, pellicola di cui scrive pure la sceneggiatura a partire da un copione precedente intitolato Massacre at R.V. Park firmato da tal Noah Bloch. Come i fedelissimi di questa rubrica già avranno intuito, il film è ben lontano dalle due pellicole a cui cerca di accomunarsi con il suo titolo più famoso (The Falling e Mutant 2, oltre che Alien Predators, sono le denominazioni alternative).
La trama verte su un trio di giovani turisti americani in Spagna che, raggiunto un paesino in culo ai lupi, si ritrovano a fronteggiare un'invasione di parassiti alieni fuoriusciti da un vicino centro spaziale. "Tomo tomo, cacchio cacchio", il film si trascina per quasi tutti i suoi 90 minuti di durata, articolandosi tra momenti in cui non succede granché e tentativi di suspense che vanno bellamente a ramengo. I succitati parassiti, capaci di portare gli umani alla pazzia, rimangono presenze astratte per gran parte dell'azione, quantomeno fino al finalissimo in cui (spoiler alert!) uno di essi erutta da un povero benzinaio, momento chiaramente messo lì per raggiungere in extremis la quota minima di effettacci. Le cronache raccontano che fu la brutta esperienza su questo film a far decidere al produttore Carlos Aured (già line producer di Monster Dog) di abbandonare il cinema. C'est la vie.
E.R.

Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=2n8fsm0pZ90