domenica 8 dicembre 2013

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL, 22-30/11/2013. AU NOM DU FILS

Belgio 2012. Di Vincent Lannoo.

Elisabeth è una donna religiosa, sposata con due figli. Conduce in radio una trasmissione cristiana a base di telefonate degli ascoltatori, con un prete in studio, inizialmente il rotondo padre Achille, che ospita in casa. La sua vita è sconvolta da alcune rivelazioni e lutti che la spingono a mettere decisamente in discussione le cose e le persone in cui credeva, e a impegolarsi in una vendetta armata che sente come unico modo per ristabilire un po' di giustizia. La Chiesa non ci difende più, quindi bisogna fare da soli, pensa: ma scoprirà che quanto sta facendo finisce inserito in uno schema più grande.
Il 31esimo TFF è stato aperto da questo film belga, proposto nella neonata sezione “After Hours”. Presentato come una bomba provocatoria, Au nom du fils affonda le mani senza paura in temi come il connubio chiesa & pedofilia e lo fa spargendo sangue. In definitiva gli si attaglia bene l'aggettivo “pasticciato”, anche se qualche bersaglio, bene o male, lo raggiunge. Come l'ipocrisia delle figure di chiesa, che qui con fervore rivoltano le accuse contro le vittime e volendo anche l'ironia sui dogmi religiosi, nelle telefonate alla radio (es. l'inconfutabilità dell'assicurazione di una vita oltre la morte). La lotta contro gli integralisti islamici di cartone, parte dell'addestramento contro “i nemici” proposto da un inviperito prete spretato che opera in mezzo alla natura, è invece un'idea più debole, così come gli ultimi minuti, in cui il film si spegne un po'.
Con scarti grotteschi, scandito in “livres” e da morti violente che funzionano come shock visivi/narrativi, il film, virulento e di grana grossa, suscita qualche sorriso e qualche risata raggelata. Lannoo, che è anche tra gli sceneggiatori, continua ad essere coccolato dal festival (addirittura questo avrebbe dovuto essere in concorso, Martini dixit), ma gli manca qualcosa per spiccare un salto dall'essere “solo” confezionatore di film bizzarri e interessanti. Credibile, nei panni del prelato-padrino, Philippe Nahon (che i cinefili ricorderanno almeno in Alta tensione).
Alessio Vacchi

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. BIG BAD WOLVES

Israele 2013. Di Aharon Keshales, Navot Papushado.

Un maestro di scuola dall'aria mite viene menato con efficienza da un poliziotto, Micky, e due sgherri prezzolati: si tratta di un sospetto pedofilo. Qualcuno filma il pestaggio, il maestro viene rilasciato e una bambina viene ritrovata, morta orrendamente, in un bosco. Micky viene sospeso dal servizio, ma è convinto, non si sa bene perché, che il suo obiettivo fosse quello giusto. Lo torna a cercare, ma della stessa idea è anche il padre della bambina, Gidi, un attempato agente dei servizi segreti che ha preso in affitto una casetta fuori mano in cui conduce il maestro, dal quale vuole farsi dire la verità a suon di torture e con l'intenzione di ucciderlo in ogni caso, e il poliziotto, a cui “chiede” di aiutarlo.
Benedetto (per un futuro di successo, si intende) dall'apprezzamento di Quentin Tarantino, è un altro film di questa edizione, dopo Au nom du fils, che tratta di pedofilia e vendetta con tinte forti, declinazioni di genere e l'uso del grottesco. Qui, una vendetta meticolosa ma che si rivela più che inutile è ciò intorno a cui si ruota. La coppia di registi gira facendo molto “cinema”, sin dall'incipit, con uno stile un po' gonfio (crescendo musicali), movimenti di macchina lenti, ralenti, inquadrature frontali, centrali e simmetriche (in panoramico) e, meno positivamente, con crescendo musicali ogni volta che siano inseribili. Il loro film non è scontato: non volge il tutto verso una sadica bloodfeast (nonstante gore e sadismo non manchino), ma gioca la carta di un abbondante umorismo disinvolto e molto nero, tanto da giungere a un passo dal comporre una ricetta con un ingrediente sfuggito di mano (metafora appropriata, considerata la torta che Gidi si prepara con piacere fra una tortura e l'altra). Per dire, battutacce prima di iniziare il lavorio sul malcapitato e la scoperta che anche il tuttodunpezzo Gidi ha qualcuno sopra di sé a cui rispondere, nella vita: l'anziano (ma l'attore ha meno anni di quanto necessario) padre.
Il film porta a essere tentati di simpatizzare per un personaggio, quello del poliziotto Micky, che è un figlio di buona donna, ma è reso con una performance non certo respingente e a confronto di Gidi, chiaramente, è Gandhi. Si è liberi di vedere il film carichi di senso morale e quindi fermarsi lì, nel qual caso discorso chiuso e film bocciato. Ma a chi scrive sembra che questo sia ampiamente bilanciato dalla piega finale che prendono gli eventi, nel coraggio di un finale non consolatorio. Film promosso quindi, a patto di non pensare all'improbabilità di certi comportamenti dei personaggi (e certi deus ex machina). Con un ameno passaggio che fa dell'umorismo sui rapporti degli ebrei con gli arabi.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. FLOOD TIDE

Usa 2013.

In una cittadina da tempo impoverita vive un gruppo di giovani artisti/musicisti. Quando la loro amica Maya si toglie la vita, per renderle omaggio montano una zattera e partono, incontrando curiose costruzioni, fermandosi a nuotare o a suonare. Più che un viaggio, una peregrinazione senza precisi limiti, accompagnato dalla presenza, a loro inavvertibile, della morta.
Visto nella sezione “Onde”, Flood Tide è il primo lungometraggio del tuttofare Todd Chandler, che ne è regista, sceneggiatore, montatore, produttore, è tra gli attori e membro fondatore dei Dark Dark Dark, band i cui membri compaiono nel film e ne hanno composto la colonna sonora. Film che nasce da un progetto più grande: Chandler infatti è tra i creatori di un progetto collettivo per la costruzione di grandi zattere fatte di rifiuti, con cui navigare lungo il Mississippi. Progetto che si è legato ad altri simili, tra cui uno svoltosi lungo il fiume Hudson ed è proprio durante quel viaggio che è nato il film, con cast/troupe/musicisti che si sono spostati suonando qua e là, cosa che faranno ancora. A questo punto va però detto che tutte le precedenti righe sono più interessanti di Flood Tide in sé.
Aperto e chiuso da immagini girate da una mdp che scorre sull'acqua e scandito con regolarità dalla voice over postmortem e dalle riflessioni della suicida – una volta morti ci si dissolve, si diventa parte di un tutto, di conseguenza lei è nell'acqua insieme agli altri – , non è un racconto tradizionale ma un'elegia, o una “narrazione calma”, nelle parole del regista e le interazioni fra i personaggi, che comprendono qualche breve scena familiare, sono ridotte.
Chandler, non adottando un punto di vista immersivo, con ogni probabilità sarà stato cosciente che i suoi non diventano veri personaggi. Ma così non c'è pathos, non c'è senso dell'amicizia e quello del lutto è soltanto detto. Il risultato è quindi noiosetto e moscio. Più che un vero film, un'esercitazione dietro la macchina da presa, ma poco proficua. Le musiche, almeno, sono pregevoli ed è soprattutto da lì che viene il buono: https://myspace.com/darkdarkdarkband/music/songs
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. THE STATION

Tit. or.: Blutgletscher. Austria 2013. Di Marvin Kren.

Isolato sulle fredde Alpi dell'Austria, un gruppetto di scienziati sta conducendo ricerche sui cambiamenti climatici. Tra loro spicca Janek (che assomiglia un poco a Magic Voice), tormentato e non domo, rimasto lì per un trauma personale, con il suo cane. Scoprono prima che i ghiacciai assumono un colore rosso, poi che il liquido responsabile produce mutazioni genetiche e le creature che ne vengono a contatto possono trasmetterle anche da specie a specie. Dubbi se rivelare la minaccia a parte, la tensione sale perché in pericolo non sono solo loro, ma c'è in arrivo una delegazione con a capo il ministro dell'ambiente, accompagnata anche dalla ex di Janek.
Kren, che nel genere aveva già diretto Rammbock, porta nella sezione “After Hours” questo horror dall'ovvio richiamo a La cosa. Che si prende un po' sul serio, stando anche alle sue dichiarazioni: quanto succede nel film è conseguenza delle gesta dell'uomo, che se continua così si scaverà la fossa da sé. Ma se voleva girare un film di genere serio e con messaggio, non c'è riuscito molto, perché The Station, nonostante i personaggi seri & tosti, è sbilenco, non ben padroneggiato e non si fa prendere molto sul serio né lascia particolari impressioni, insomma non ha molto con cui compensare il (purtroppo) risaputo assunto.
La regia è prima nervosa, per diventare qualche volta isterica: non male l'attacco al rifugio, risolto inizialmente con un'unica inquadratura con tutti i personaggi. Purtroppo da un certo punto in poi emerge un umorismo spesso involontario, che il pubblico ha rilevato esagerandone la portata (nulla di esilarante, per chi scrive). Kren la butta in caciara e con perplessità si prende atto dell'evoluzione del personaggio, scritto male, della donna ministro, una Merkelotta che prima sembra stare mitemente dietro la sua guardia del corpo, poi, quando la situazione inizia a degenerare, si trasforma in una belva di attivismo e rabbia. In un film che, soprattutto inizialmente, pare avere pochi fronzoli, spiace anche la linea narrativa legata al rapporto tra Janek e la sua squinzia, coi loro riferimenti al passato e, dulcis in fundo, una sorta di lieto fine quantomeno discutibile. Nonostante tutto questo e una fotografia che fa contrastare il freddo grigio montagnoso con un'estetica cartolinesca in certe parti con la delegazione, non è un film brutto né detestabile: a Kren sembra mancare però più gusto.
Per cercare di spaventare, qualche volta pasticcia (l'attacco al bodyguard Luca, montato troppo repentinamente). Abbastanza schifose, comunque, le varie creature, tra cui un artigianale scarafaggione. 
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. THE STONE ROSES: MADE OF STONE

UK 2013. Di Shane Meadows.

Gli Stone Roses, band di Manchester esplosa a fine anni '80 e scioltasi per vari problemi a metà anni '90 poco dopo un secondo album, annunciano ufficialmente una reunion. Meadows, loro fan, segue conferenza stampa, prove, nuovi concerti, in progressione verso le date annunciate a Manchester, facendoci intanto ripercorrere un po' della loro storia.
Non serve assolutamente essere un fan degli Stone Roses (magari non essere tipi “O brutalcore o niente” sì) per godersi questo nuovo film di Meadows, i cui lavori sono sempre presenti al festival da quando la Martini è vicedirettrice. Tra le visioni più contagiose e all'altezza delle aspettative di quest'edizione, è un documentario non convenzionale, diretto da quello che è dichiaratamente un fan e unisce una passione evidente con il fare del cinema. Meadows si mette in scena, spiega il suo coinvolgimento nel progetto e ad un certo momento, nell'incertezza sul futuro di band e documentario, fa il punto in progress. Giustamente, mette la musica spesso in primo piano (sebbene il numero finale dei brani sia limitato) e fino all'ultimo. L'intro notevole è ripreso nei potenti, sia dal punto di vista musicale che visivo, ultimi minuti in cui le riprese dell'esecuzione di un brano del concertone di Heaton Park nella loro città natale, con lunga parte strumentale finale, sono punteggiate di immagini degli spettatori, ralenti, fans esaltati, pubblico che entra a porte aperte. A quel punto, parla la musica, non c'è bisogno di altre parole.
Prima vediamo, con scelta azzeccata, le prove in studio, tra i segmenti del film fotografati in un bianco e nero curato. Per la band, che abbiamo visto dichiarare essersi ritrovata prima di tutto sul piano umano, le cose sembrano tornare a girare bene, i musicisti sembrano sereni e pimpanti e il frontman Ian Brown canta con professionale tranquillità (mentre i fans si esaltano e sudano). Poi, con musica tenue, c'è l'amarezza del post-concerto di Amsterdam, chiuso male dal batterista che se ne va e che mette la band in bilico: intelligentemente Meadows ne approfitta per completare il discorso su problemi e separazione nei 90s degli Stone Roses. “Nessuno ci ha dato dei calci in culo”, dicono di loro riguardo quel periodo, definendosi in pratica ragazzini con troppi soldi: e in un'intervista d'epoca proposta più indietro danno un'immagine di noncurante baldanza giovanile, mettendo in difficoltà i giornalisti con risposte monosillabiche e mostrandosi pieni di sé.
Divertente e dà perfettamente il senso di cosa possa essere la musica nella vita di ognuno, la parte dedicata alla distribuzione dei biglietti per il primo concerto della reunion, a posti limitati, annunciato da radio e social newtork. C'è un senso positivo di speranza, attesa e dedizione nella gente che si dichiara alla mdp: chi ha lasciato di corsa il lavoro e si è messo in coda coi vestiti sporchi, chi dice di aver raccontato balle al capo. Poi, la delusione di chi non ce l'ha fatta e l'entusiasmo (“Il miglior concerto della mia vita”, “Fanculo gli Oasis”) di chi esce dall'evento. “Nella vita le cose belle qualche volta succedono”, dice un fan. La musica ci accompagna nella vita e ci fa star bene. E, tenendosi più bassi, ad un festival fa piacere una visione musicale energetica così.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. PELO MALO

Venezuela 2013. Di Mariana Rondón.

All'interno di un casermone nella periferia di Caracas vive Junior, col fratellino bebé e la madre Marta. I pensieri di Junior sono rivolti al riuscire a lisciarsi la massa di capelli crespi, fare una bella foto di classe (che però costa) prima che ricominci la scuola e, complice la nonna nera da cui qualche volta la madre lo lascia, diventare un cantante. Con Marta, però, il bambino ha un rapporto infelice: lei lo mal sopporta e non c'è feeling tra i due.
Sicuramente uno dei film migliori tra quelli nuovi visti da chi scrive al festival, vincitore per la miglior sceneggiatura e la migliore attrice (Samantha Castillo), Pelo malo è scritto bene, credibile e forte di personaggi interessanti. Se la violenza dell'ambiente dove i protagonisti vivono è solo evocata (si parla di violenze sessuali, si sentono spari a distanza), quello che tarpa le ali alla serenità di Junior è la vita con la madre. Marta, vedova, attualmente senza lavoro e impegnata nel tentativo di recuperare l'impiego precedente di vigilante, è una donna presa da sé, dalle cose che deve fare e i posti in cui deve recarsi, sempre seria, con una tendenza al comando nei confronti del figlio maggiore (“Devo essere d'esempio”, dice ad un certo punto). Sembra patire la difficoltà del vivere; la sua insicurezza e la sua incertezza del futuro la rendono indurita e quasi incapace di lasciarsi andare. Anche se ha dentro di sé un'energia, anche sessuale e legata al sentirsi donna, che qualche volta viene fuori (per esempio nel ballo, che da allegro si fa aggressivo, con Junior o nella scena di sesso al volo con un fusto del palazzo: buona scena erotica, non così gratuita).
E questo figlio un po' introverso, lei non lo accetta e non lo capisce. Quando lui la fissa, lei si irrita: “Non guardarmi così”. Ma poi è lei a guardarlo corrucciata, quando si comporta in modo strano (o che percepisce tale). Junior è praticamente considerato un elemento di preoccupazione in più; figuriamoci il sospetto, in cui questo si traduce, che sia omosessuale.
La Castillo è sicuramente molto brava nei panni di questo personaggio di madre non snaturata, ma che sbaglia; un personaggio che sarebbe schematico, e non farebbe un buon servizio al film, liquidare come negativo, anche se raggiunge uno sgradevole punto basso quando fa sì che suo figlio guardi, per riportarlo sulla via dell'essere “uomo”, mentre lei si lascia possedere dal capo. Di conseguenza, si sta dalla parte del simpatico bambino, mentre lei suscita pena. Le scene con i divertenti dialoghi fra lui e l'amica, determinata nel volersi far fare una foto da miss, fanno storia a sé.
Un film felicemente affrancato da convenzioni, che lascia in bocca un sapore dolceamaro: alla qualità del film e alla catchiness della canzoncina Mi limon mi limonero cantata da Henry Stephen (che spicca in una colonna sonora altrimenti molto parca), si contrappongono l'asprezza di questo rapporto madre-figlio come non è corrente vederne al cinema e un finale non consolatorio (al bambino però è concessa una piccola soddisfazione sui titoli di coda). P.S. Tutto questo superando l'imbarazzo del cartello iniziale della società di distribuzione: FiGa Films.
A.V.

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. TRAFFIC DEPARTMENT

Tit. or.: Drogówka. Polonia 2013. Di Wojciech Smarzowski.

Corpo di polizia municipale di Varsavia, quasi tutti uomini e “brutti, sporchi & cattivi”: dediti ad alcool, prostitute e corse molto più che al lavoro, dove la corruzione è pratica quotidiana. In seguito a una notte brava, uno di loro viene trovato morto. Principale sospettato è il sergente Krol, perché sua moglie era l'amante del morto e lui gli doveva dei soldi (non che fosse l'unico). Prima di venire arrestato fugge e, dimostrando una ammirevole capacità di muoversi in incognito, cerca di scoprire per conto suo la verità. Che è grossa, perché comprende appalti truccati e malavita.
Una delle sorprese del festival, nella neonata sottosezione “Europop”, Traffic Department sfoggia un approccio al genere molto moderno e quasi sperimentale. Non si tratta di un film d'azione in senso comunemente inteso, non ci sono colpi d'arma da fuoco e c'è tutto sommato più sesso che violenza. Ma per descrivere un mondo e narrare la sua vicenda, elabora, con una frenesia che a un certo punto diventa funzionale a un protagonista che non ha tempo e non si può fermare, il semplice assunto che tutti ormai fanno riprese e vengono ripresi. Smarzowski, anche sceneggiatore, e il suo montatore Laskowski segmentano tutto il materiale visivo senza fronzoli, con scene e sequenze tagliate in modo secco, e qualche volta i tasselli irrompono in modo brutale. In questo modo servono allo spettatore un film dal ritmo elevatissimo, che non può che tenere sulla sedia, ma gli chiede al contempo un coinvolgimento attivo. Necessita dell'attenzione perché non tutto è chiaro, non tutto è spiegato bene, almeno non subito, né sottolineato. A cominciare dalle istanze che filmano quel che si vede (Krol, per esempio, visiona un'infinità di video da cellulari per cercare di capire di più), per proseguire con le rivelazioni e gli snodi della matassa. Il che può anche essere preso semplicemente come un difetto e per il pubblico medio sicuramente lo è (su questo si tornerà fra poco).
Un film convinto, che si prende (abbastanza) sul serio, d'impatto, il cui paradosso è che a forza di affastellare senza requie, neppure in momenti più narrativamente rilassati, una cosa ad un'altra, risulti alla fine (e post-visione) meno incisivo di come vorrebbe. Anche se dopo quasi due ore a tambur battente, è efficace come l'iperattivismo del film e del suo personaggio principale (una scheggia umana!) si contrappongano, con una sfumatura che ha dell'esistenziale, alla sostanziale immobilità della lunga inquadratura finale, quando tutto ormai si può fermare, ma le cose non sono andate affatto nel migliore dei modi.
La Polonia ne esce come IL paese della corruzione e i suoi vigili come un branco di goderecci costantemente ubriachi e (pardon il gioco di parole) trafficoni. Ora, il film è stato un grande, inaspettato successo in patria. È scontato, ma è il caso di scriverlo: in Italia non solo non sarebbe possibile concepire e girare un film del genere, ma tantomeno che il pubblico lo premi. Basti pensare all'immagine che dà di paese e forze dell'ordine, a ciò che fanno gli attori (Arkadiusz Jakubik, che interpreta uno dei colleghi da cui Krol cerca momentaneo asilo, passa il tempo a smaltire la sbornia e ciulare, con riferimenti all'ingoio), alla possibilità che il pubblico che fa la fila solo per le commedie nostrane apprezzi un film dall'involucro avviluppante ma dall'interno meno facile, oltre che ambiguo. Siamo un paese immaturo anche in cose come questa. Nel corso di un momento ambientato in un bordello, sentiamo inequivocabilmente: “Bunga bunga!”.
A.V. 

Il trailer: http://www.youtube.com/watch?v=CJ1ea3pTtrs

Io c'ero. Festival ed eventi vari. 31 TORINO FILM FESTIVAL. LFO

Svezia/Danimarca 2013. Di Antonio Tublén.

Robert vive da solo, perché ha perso moglie e figlio in un incidente non chiaro. Conduce a casa esperimenti sulle frequenze audio, finché giunge a un risultato che si guarda bene dal condividere con gli altri “hobbisti” coi quali è in contatto: una frequenza che ipnotizza gli esseri umani e permette di comandarli. Armato di cuffie e comandi manuali, sceglie come cavie i due vicini di casa, una coppia: approfitta sessualmente di lei, ricrea una famiglia intorno a sé, li usa come servitori. Rischia di farsi scoprire e deve cambiare i suoi piani più volte, ma riesce a mantenere il controllo della situazione e poi mirare più in alto.
È un soggetto interessante, che poteva essere trattato in modi differenti. Tublén, che scrive, monta e dirige questo film proposto in “After Hours”, sceglie un approccio raffreddato, anche fotograficamente, relativamente minimale nella sua ambientazione fra quattro mura, fuori dalle quali gli sconfinamenti sono limitati all'audio. Con qualche scelta di inquadratura originale (tagliate sopra o sotto) e soprattutto con un umorismo controllato, che sgancia di tot in tot, nonostante il trattamento che il protagonista riserva alla coppia sia crudele. Nell'ultima parte il film diventa un po' un apologo, una riflessione sul potere assoluto portato fino ai limiti estremi - cosa si farebbe, se si fosse Dio? - e rivela qualche ambizione pervasiva nei confronti dello spettatore (vedi il finalissimo).
Non è un film che gira perfettamente fino alla fine: inevitabilmente, tra un comando e l'altro, rischia la ripetitività e si poteva togliere qualcosa, almeno qualche intervento della moglie defunta, che tanto è una funzione - fa da allarme per la coscienza di Robert, rappresenta il suo passato prossimo non realmente elaborato - e non dice niente di così importante. Un dubbio secondario, comunque, rimane: perché caratterizzare il protagonista come un uomo che si nutre praticamente solo di uova?
A.V.